Chiunque abbandona la sua croce non può essere degno del Signore e diventare Suo discepolo
San Sofronio di Essex, Inghilterra (+1993)
San Sofronio di Essex, Inghilterra (+1993):
“Chiunque abbandona la sua croce non può essere degno del Signore e diventare Suo discepolo. Le profondità dell’Essere Divino sono rivelate al cristiano quando è crocifisso per il nostro Salvatore. La croce è il fondamento dell’autentica teologia”.
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San Paisios del Monte Athos, Grecia (+1994)
Hiéromoine Isaac
San Paisios del Monte Athos (Farassa, 25 luglio 1924 – Souroti, 12 luglio 1994), particolarmente venerato in Grecia per la sua semplicità e le sue doti non comuni, è stato monaco del Monte Athos.
L’anziano Paisios del Monte Athos fu una notevole figura carismatica. Si chiamava Arsénios Eznepìdis e nacque a Farassa (in Cappadocia, oggi Feke nell’odierna Turchia) nel luglio del 1924. Il neonato Paisios, fu battezzato dal parroco del paese, un sacerdote monaco con fama di santità, Arsenio il Cappadoce. Gli diede il proprio nome. Dopo un poco la famiglia di padre Paisios, il parroco e tutto il paese lasciarono la turchia ed emigrarono in Grecia. Si stabilirono nell’isola di Corfù nella quale sant’Arsenio morì poco dopo. Da Corfù passarono a Igoumentista e da questa a Kontitsa. La loro grande povertà impedì al piccolo Arsenio di fare studi superiori. Già da piccolo si nota in lui una spiccata religiosità: amava isolarsi in preghiera nel bosco nel quale, racconta, aver avuto una visione di Cristo.
Terminato il suo servizio militare come marconista, nel 1950 spinto dal desiderio di divenire monaco si reca nel Monte Athos. Entra come novizio nel monastero di Esphigmenou. In seguito riceve il nome di postulante: Avérkios. Il 12 marzo 1956 lascia il monastero di Esphigmenou ed entra in quello di Philotheou, ed è qui che, pochi mesi dopo, prende la tonsura monastica col nome di Paisios. Il monaco aveva ardente desiderio di fare vita quasi eremitica, vivendo nel deserto dell’Athos ma ne fu impedito: “Una sera, mentre mi preparavo per partire per il deserto, improvvisamente mi aveva bloccato sul mio sgabello una forza invisibile. Quest’effetto duro per due ore. Pregavo versando lacrime quando sentii una voce: ‘Non andrai nel deserto, ma a Konitsa, dove ti aspettano gliuomini’. Dopodiché fui liberato. Dio mi mandava nel mondo”. Dall’agosto del 1958 padre Paisios sta nel monastero di Stomio, a Konitsa. Il 30 settembre 1962 padre Paisios lascia questo monastero, invitato dal vescovo-igumeno del monastero di santa Caterina sul Sinai. Laggiù rimase quasi un anno, non senza difficoltà, dal momento che il luogo gli causava notevoli problemi di salute.
Ritornò sull’Athos e, poco dopo, fu costretto a farsi operare. Gli asportarono una parte di un polmone. L’11 gennaio 1966 egli ricevette dalle mani del suo padre spirituale, papa Tichon, il grande schima monastico. Dal 12 agosto 1968, il padre, nonostante le sue precarie condizioni di salute, aiutò alcuni monaci a ristrutturare il monastero di Stavronikita.
Alla morte di papa Tichon, padre Paisios si ritirò a vivere nella sua cella senza abbandonare, però, Stavronikita. In seguito visse in una povera casetta non lontano dal monastero di Koutloumousiou dove riceveva continuamente molti pellegrini confortandoli e stimolandoli nelle virtù. Non di rado diversi tra loro testimoniavano avvenimenti miracolosi grazie alle preghiere dell’umile monaco.
Il 12 luglio 1994 il monaco morì, in seguito a complicazioni intervenute a causa di un’operazione al tumore diffuso in molte parti del suo corpo.
Un medico che lo operò testimoniò così: “Era la prima volta che vivevo a diretto contatto con un Anziano atonita e ne sono stato impressionato. La morte era per lui una redenzione; la considerava come un ponte che lo avrebbe aiutato a raggiungere Dio. L’esperienza che ho vissuto è qualcosa di molto commovente che non può essere descritto”.
Il corpo di padre Paisios è seppellito nel monastero di san Giovanni il Teologo a Sourotì, presso Salonicco, ed è meta di continui pellegrinaggi.
Il 13 gennaio 2015 padre Paisios è stato iscritto nel registro dei santi della Chiesa ortodossa su approvazione del Santo Sinodo del Patriarcato Ecumenico.con questo rescritto:
“Oggi, martedì 13 gennaio 2015, si è riunita, sotto la presidenza di Sua Santità, il Santo Sinodo nella conferenza regolare concernente l’esame degli argomenti dell’ordine del giorno. Questo stesso Santo Sinodo: a) ha accettato all’unanimità, su relazione del Comitato Canonico e ha registrato nell’Elenco dei santi della Chiesa ortodossa il monaco Paisios Athonita;[…]. Patriarcato di Costantinopoli, 13 gennaio 2015”.
Hiéromoine Isaac, L’Ancien Paissios de la Sainte Montagne, L’Age d’Homme, Lausanne 2008.
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San Serafino di Sarov, Russia (+1833)
Colloquio con Motovilov
Era un giovedì. Il cielo era grigio. La terra era coperta di neve. Spessi fiocchi continuavano a turbinare nell’aria quando Padre Serafino iniziò a conversare con me in una radura vicina al suo “piccolo eremitaggio” di fronte al fiume Sarovka che scorreva ai piedi della collina. Mi fece sedere sul ceppo d’un albero da poco abbattuto mentre lui si rannicchiò di fronte a me.
— Il Signore mi ha rivelato — disse il grande starez — che dalla vostra infanzia avete sempre desiderato sapere quale sia il fine della vita cristiana. Per questo avete interrogato diverse persone alcune dei quali ricoprivano anche alte cariche ecclesiastiche.
Devo dire che dall’età di dodici anni ero perseguitato da quest’idea e che, per questo, avevo rivolto tale domanda a parecchie personalità ecclesiastiche senza mai aver ricevuto una risposta soddisfacente. Lo starez avrebbe dovuto ignorare tutto questo.
Ma nessuno — continuò Padre Serafino — vi ha mai detto niente di preciso. Vi consigliarono di andare in chiesa, di pregare, di vivere secondo i comandamenti di Dio, di fare del bene. Tale, vi dissero, era lo scopo della vita cristiana. Alcuni giunsero pure a disapprovare la vostra curiosità, trovandola fuori posto ed empia. Essi avevano torto. Quanto a me, miserabile Serafino, ora vi spiegherò in che consiste realmente questo fine.
La preghiera, il digiuno, le veglie e le altre attività cristiane, per quanto possano parere buone, non costituiscono il fine della vita cristiana ma sono il mezzo attraverso il quale vi si può pervenire. Il vero fine della vita cristiana consiste nell’acquisire lo Spirito Santo. Per quel che riguarda la preghiera, il digiuno, le veglie, l’elemosina ed ogni altro tipo di buona azione fatta in nome di Cristo, non sono che dei mezzi per acquisire lo stesso Spirito.
Nel nome di Cristo
Ricordate che solo una buona azione fatta nel nome di Cristo ci procura i frutti dello Spirito Santo. Tutto quanto non è fatto in suo nome, fosse pure il bene, non ci può ottenere alcuna ricompensa, né nel secolo futuro, né in questa vita mentre su questa terra non ci dona la Grazia divina. E’ per questo che Gesù Cristo diceva: “Colui che non accumula con me disperde” (Lc 11, 23).
Pertanto, si è obbligati a chiamare una buona azione “cumulo” o “raccolta”, perché essa resta buona anche se non è fatta in Nome di Cristo. La Scrittura dice: “In ogni nazione colui che teme Dio e pratica la giustizia gli è accetto” (At 10, 35). Il centurione Cornelio, che temeva Dio e agiva secondo giustizia, fu visitato mentre pregava da un angelo del Signore che gli disse: “Manda dunque due uomini a Ioppe e fa’ venire un certo Simone soprannominato Pietro. Da lui ascolterai della parole di vita eterna con le quali sarai salvato con tutta la tua casa” (At 10, 5).
Vediamo, dunque, che il Signore utilizza i suoi mezzi divini per permettere a un simile uomo di non essere privato nell’eternità della ricompensa che gli è dovuta. Per ottenerla è necessario che si cominci già da ora a credere in Nostro Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio disceso sulla terra per salvare i peccatori e per far acquisire loro la Grazia dello Spirito Santo che introduce i nostri cuori nel Regno di Dio e ci apre la via della beatitudine nella prossima vita. Non va oltre a ciò la soddisfazione arrecata a Dio dalle buone azioni compiute indipendentemente dal Nome di Cristo. Il Signore ci dona i mezzi per perfezionarle. Sta all’uomo approfittarne o meno. E’ per questo che il Signore dice ai giudei: “Se voi foste ciechi, sareste senza peccato ma voi stessi dite: ‘Noi vediamo!’ Perciò il vostro peccato rimane (Gv 9, 41). Quando un uomo come Cornelio le cui opere non erano fatte nel Nome di Cristo, ma erano gradite a Dio, comincia a credere nel Suo Figlio, queste opere gli sono attribuite come se fossero fatte nel nome di Cristo a causa della sua fede in Lui. (Ebr 11, 6). In caso contrario, l’uomo non ha il diritto di contestare se il bene compiuto non gli è servito a nulla. Questo non succede mai quando una buona azione viene fatta nel Nome di Cristo, perché il bene compiuto in suo Nome non porta solo una corona di gloria nel secolo venturo, ma già ora riempie l’uomo della grazia dello Spirito Santo, com’è stato detto: “Dio dona lo Spirito senza misura. Il Padre ama i Figli; Egli ha posto tutto nelle loro mani” (Gv 3, 34-35).
L’acquisizione dello Spirito Santo
Acquisire lo Spirito di Dio è dunque il vero fine della nostra vita cristiana al punto che la preghiera, le veglie, il digiuno, l’elemosina e le altre azioni virtuose fatte in Nome di Cristo non sono che dei mezzi per tal fine.
— Che significa acquisirlo? Domandai a Padre Serafino. Non ne capisco bene il significato.
— Acquisire, ha lo stesso significato di ottenere. Sapete cosa vuol dire acquisire del denaro? Per quanto riguarda lo Spirito Santo è la stessa cosa. Il fine della vita delle persone comuni consiste nell’acquisire denaro, nel fare un guadagno. I nobili, inoltre, desiderano ottenere onori, titoli di distinzione e altre ricompense che lo Stato accorda loro per determinati servizi. L’acquisizione dello Spirito Santo è anche un capitale, ma un capitale eterno, dispensatore di grazie; è molto simile ai capitali temporali e si ottiene con gli stessi procedimenti. Nostro Signore Gesù Cristo, Dio-Uomo, paragona la nostra vita ad un mercato e la nostra attività sulla terra ad un commercio. Egli ci raccomanda: “Negoziate prima ch’io ritorni economizzando il tempo perché i giorni sono incerti” (Lc 19, 12-13; Ef 5,15-16), il che vuol dire: “Sbrigatevi ad ottenere dei beni celesti negoziando i prodotti terreni”. Questi prodotti terreni non sono altro che le azioni virtuose fatte in Nome di Cristo le quali ci ottengono la Grazia dello Spirito Santo.
La parabola delle vergini
Nella parabola delle vergini sagge e delle vergini stolte (Mt. 25, 1-13) quando quest’ultime finiscono l’olio viene detto loro: “Andate a comperarlo al mercato”. Tornando esse trovano la porta della camera nuziale chiusa e non possono entrare. Alcuni pensano che la mancanza d’olio delle vergini stolte simbolizzi l’insufficienza di azioni virtuose nel corso della loro vita. Tale interpretazione non è esatta. Quale mancanza d’azioni virtuose potevano avere, visto che vengono chiamate comunque vergini, anche se stolte? La verginità è una grande virtù, uno stato quasi angelico che può sostituire tutte le altre virtù. Io, miserabile, penso che mancasse loro proprio lo Spirito Santo di Dio. Praticando le virtù, queste vergini spiritualmente ignoranti, credevano che la vita cristiana consistesse in tali pratiche. Ci siamo comportate in maniera virtuosa, abbiamo fatto delle opere pie — pensavano loro — senza preoccuparsi se avessero ricevuto o no la Grazia dello Spirito Santo. Su questo genere di vita, basato unicamente sulla pratica delle virtù morali senza alcun esame minuzioso per sapere se esse ci rendono — e in quale quantità — la Grazia dello Spirito di Dio, è stato detto: “Alcune vie che paiono inizialmente buone conducono all’abisso infernale” (Pr 14,12)
Parlando di queste vergini, nelle sue Epistole ai Monaci Antonio il Grande dice: “Parecchi tra i monaci e le vergini ignorano completamente la differenza che esiste tra le tre volontà che agiscono dentro l’uomo. La prima è la volontà di Dio, perfetta e salvatrice; la seconda è la nostra volontà umana, che per se stessa non e ne rovinosa né salvatrice; la terza — quella diabolica — è decisamente nefasta. E’ questa terza nemica volontà che obbliga l’uomo a non praticare assolutamente la virtù o a praticarla per vanità o unicamente per il “bene” e non per Cristo. La nostra seconda volontà ci incita a soddisfare i nostri istinti malvagi o, come quella del nemico, c’insegna a fare il “bene” in nome del bene, senza preoccuparsi della grazia che possiamo acquisire. Quanto alla terza volontà, quella salvatrice di Dio, essa ci insegna a fare il bene unicamente per il fine di acquisire lo Spirito Santo, tesoro eterno ed inestimabile, che non può essere uguagliato con nulla al mondo”.
E’ proprio la Grazia dello Spirito Santo simbolizzata dall’olio che mancava alle vergini stolte. Esse sono chiamate “stolte” perché non si preoccupano del frutto indispensabile della virtù cioè la Grazia dello Spirito Santo senza la quale nessuno può essere salvato perché “ogni anima è vivificata dallo Spirito Santo per essere illuminata dal sacro mistero dell’Unità Trinitaria” (Prima Antifona al Vangelo del Mattutino). Lo stesso Spirito Santo viene ad abitare nelle nostre anime e questa presenza dell’Onnipotente in noi, questa coesistenza della sua Unità Trinitaria con il nostro spirito non ci è donata che a condizione di lavorare con tutti i mezzi a nostra disposizione per ottenere lo Spirito Santo il quale prepara in noi un luogo degno per quest’incontro, secondo l’immutabile parola di Dio: “Io verrò e abiterò in essi. Sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo” (Ap 3, 20; Gv 14, 23). E’ questo l’olio che le vergini sagge avevano nelle loro lampade, olio in grado di bruciare per molto tempo diffondendo una luce forte e chiara per poter permettere l’attesa dello Sposo a mezzanotte ed entrare con lui nella camera nuziale dell’eterna gioia.
Quanto alle vergini stolte, vedendo che le loro lampade rischiavano di spegnersi, esse si recarono al mercato ma non poterono tornare prima della chiusura della porta. Il mercato è la nostra vita. La porta della camera nuziale, chiusa per impedire di raggiungere lo Sposo, è la nostra morte umana; le vergini, sia quelle sagge che quelle stolte, sono le anime dei cristiani. L’olio non simbolizza le nostre azioni, ma la Grazia attraverso la quale lo Spirito Santo riempie il nostro essere trasformandoci da corrotti ad incorrotti. Così la Grazia trasforma la morte fisica in vita spirituale, le tenebre in luce, la schiavitù verso le passioni alle quali è incatenato il nostro corpo in tempio di Dio, cioè in camera nuziale dove incontriamo Nostro Signore, Creatore e Salvatore, Sposo delle nostre anime. Grande è la compassione che Dio ha verso la nostra disgrazia. E la nostra disgrazia non è altro che la nostra negligenza verso la sua sollecitudine. Egli dice: “Io sono alla porta e busso…” (Ap 3, 20), intendendo per “porta” la nostra vita presente non ancora conclusa con la morte.
La preghiera
Oh! Quanto vorrei, amico di Dio, che in questa vita voi siate sempre con lo Spirito Santo. “Vi giudicherò nella situazione in cui vi troverete” dice il Signore (Mt 24, 42; Mc 13, 33-37; Lc 19, 12 e seguenti). E’ una disgrazia veramente grande se egli ci trova appesantiti dalle preoccupazioni e dalle pene della terra perché Egli potrebbe adirarsi nel qual caso chi gli potrebbe resistere? E’ per questo che è stato detto: “Vegliate e pregate per non essere indotti in tentazione” (Mt 26, 41), il che comporta non essere privati dallo Spirito di Dio visto che le veglie e la preghiera ci donano la Sua Grazia.
Sicuramente ogni buona azione fatta in Nome di Cristo dona la Grazia dello Spirito Santo, ma è soprattutto la preghiera che ottiene ciò al di sopra d’ogni altro mezzo, essendo essa sempre nelle nostre possibilità. Ad esempio, voi avete il desiderio di recarvi in chiesa, ma essa è troppo distante o la liturgia è finita; avete il desiderio di fare l’elemosina, ma non vedete alcun povero o non avete il denaro; volete rimanere vergini ma non avete sufficiente forza per esserlo a causa della vostra costituzione o a causa degli attacchi del nemico davanti ai quali non potete resistere per la debolezza della vostra carne; vorreste fare una buona azione nel Nome di Cristo ma non avete sufficiente forza per eseguirla oppure l’occasione non si presenta. Per quel che riguarda la preghiera nulla la impedisce: ognuno ha la possibilità di pregare, il ricco e il povero, l’uomo benestante e quello indigente, il forte e il debole, il sano e il malato, il virtuoso e il peccatore.
Possiamo constatare la potenza della preghiera se osserviamo che essa ottiene i suoi risultati pure se è fatta da un peccatore, basta che sia sincera, come nell’esempio seguente riportato dalla Santa Tradizione. Una prostituta toccata dalla disgrazia d’una madre che stava per perdere il suo unico figlio vedendone la disperazione osò gridare verso il Signore benché fosse ancora insozzata dal suo peccato: “Non per me, orribile peccatrice, ma per le lacrime di questa madre che piange il suo figlio credendo fermamente nella tua misericordia e nella tua Onnipotenza, risuscitaglielo, oh Signore!” E il Signore la esaudì (cfr. Lc 7, 11-15).
Questa, amico di Dio, è la potenza della preghiera. Al di sopra d’ogni altra cosa essa ci dona la grazia dello Spirito di Dio ed essa rientra sempre nelle nostre possibilità. Beati saremo noi se Dio ci troverà vigilanti nella pienezza dei doni del suo Santo Spirito. Potremo allora sperare d’essere rapiti al di sopra delle nuvole per incontrare Nostro Signore rivestito di potenza e di gloria il quale giudicherà i vivi e i morti dando a ciascuno il dovuto. […]
Vedere Dio
— Padre, gli dissi, voi parlate sempre dell’acquisizione della Grazia dello Spirito Santo come il fine della vita cristiana. Ma come la posso riconoscere? Le buone azioni sono visibili. Ma lo Spirito Santo può essere visto? Come posso sapere se Egli è in me oppure no?
— Nell’epoca nella quale viviamo, rispose lo starez, si è giunti ad una tale tiepidezza nella fede, a una tale insensibilità nei riguardi della comunione con Dio che ci siamo praticamente distanziati quasi totalmente dalla vera vita cristiana. Oggi alcuni passi della Santa Scrittura ci paiono strani. Ad esempio quello in cui lo Spirito Santo, attraverso la bocca di Mosé, dice: “Adamo vedeva Dio mentre passeggiava nel paradiso” (Gn 3, 8), o quando leggiamo nelle lettere di San Paolo che l’Apostolo viene impedito dallo Spirito Santo a proclamare la parola in Asia e invece lo accompagna in Macedonia (At 16, 6-9). In molti altri passi della Sacra Scrittura si ritrovano simili temi sull’apparizione di Dio agli uomini. […]
Devo ancora io, miserabile Serafino, spiegarvi, amico di Dio, in che consiste la differenza tra l’azione dello Spirito Santo mentre prende misteriosamente possesso dei cuori di coloro che credono in nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo e l’azione tenebrosa del peccato che viene come un ladro sotto l’istigazione del Demonio.
Lo Spirito Santo ci ricorda le parole di Cristo e lavora assieme a Lui, guidando i nostri passi solennemente e gioiosamente nella via della pace. L’agitazione prodotta dallo spirito diabolico che si oppone a Cristo ci incita, invece, alla rivolta e ci rende schiavi della lussuria, della vanità e dell’orgoglio.
“In verità, in verità vi dico, colui che crede in me non morirà mai” (Gv 6, 47). Colui che per la sua fede in Cristo e in possesso dello Spirito Santo, pure dopo aver commesso per debolezza umana qualsiasi peccato che causa la morte dell’anima, non morirà per sempre, ma sarà resuscitato per la Grazia di Nostro Signore Gesù Cristo il quale ha preso su di sé i peccati del mondo donando gratuitamente grazia su grazia.
E’ proprio parlando di questa Grazia manifestata all’intero mondo e al nostro genere umano dall’Uomo-Dio che il Vangelo dice: “Di ogni essere egli era la vita e la vita era la luce degli uomini” aggiungendo: “la luce illumina le tenebre ma le tenebre non hanno voluto accoglierla” (Gv 1, 4-5). Questo significa che la Grazia dello Spirito Santo ricevuta con il battesimo nel Nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, malgrado le cadute peccaminose, malgrado le tenebre che circondano la nostra anima continua a brillare nel nostro cuore della sua eterna luce divina per gli inestimabili meriti di Cristo. Di fronte ad un peccatore abituale, questa luce di Cristo dice al Padre: “Abbà, Padre, non si infiammi la tua collera contro questo indurimento”. Ed in seguito, quando il peccatore si sarà pentito, essa cancellerà completamente le tracce dei crimini commessi, rivestendo l’antico peccatore d’un vestito incorruttibile intessuto con la grazia dello Spirito Santo della cui acquisizione sto continuamente parlando.
La grazia dello Spirito Santo è Luce
Egli fu trasfigurato davanti a loro e i suoi vestiti divennero bianchi come la neve… (Mt 17, 2)
Bisogna ancora che vi dica qualcosa in più affinché comprendiate meglio cosa si intende quando si parla di Grazia divina, come la si può riconoscere, com’è ch’essa si manifesta agli uomini che vengono da essa illuminati poiché la Grazia dello Spirito Santo è Luce. Tutta la Sacra Scrittura ne parla. Davide, l’antenato dell’Uomo-Dio dice: “Un lampo sotto i miei piedi, la tua parola, una luce sulla mia strada” (Ps 118, 105). In altri termini, la Grazia dello Spirito Santo che la legge rivela sotto la forma dei comandamenti divini è il mio faro, la mia luce. E’ questa la Grazia dello Spirito Santo “che con tanta pena mi sforzo di acquisire, cercando sette volte al giorno la Sua verità” (Ps 118, 164). Come potrò trovare in me, tra le numerose preoccupazioni della mia situazione, una sola scintilla di luce per schiarire il mio cammino ottenebrato dall’odio dei miei nemici?
Effettivamente il Signore ha mostrato spesso, davanti a numerosi testimoni, l’azione della Grazia dello Spirito Santo sugli uomini che aveva illuminato e istruito attraverso grandiosi avvenimenti. Ricordate Mosé dopo che si era incontrato con Dio sul Monte Sinai (Es 34, 30-35). Gli uomini non potevano guardarlo perché il suo volto brillava d’una luce straordinaria. Egli fu obbligato a mostrarsi al popolo con il viso coperto da un velo. Ricordate la trasfigurazione del Signore sul monte Tabor: “Egli fu trasfigurato davanti a loro; i suoi vestiti divennero bianchi come la neve.., i discepoli spaventati caddero con il viso a terra mentre Mosé ed Elia apparvero rivestiti della medesima luce. Allora una nube li ricoprì in modo ch’essi non divenissero ciechi”. (Mt 17, 1-8 ; Mc 9, 2-8 ; Lc 9, 28-37). E’ così la Grazia dello Spirito Santo appare come una luce ineffabile a coloro a cui Dio manifesta la sua azione.
— Allora, domandai a padre Serafino, come potrò riconoscere in me la grazia dello Spirito Santo?
— E’ semplicissimo, mi rispose il santo. Dio dice: “Tutto è semplice per coloro che acquisiscono la saggezza” (Pr 14, 6). La nostra sfortuna sta nel fatto che noi non la ricerchiamo proprio, questa Saggezza divina la quale, non essendo di questo mondo, non è presuntuosa. Essa è piena d’amore per Dio e per il prossimo e spinge l’uomo alla propria salvezza. Parlando di questa saggezza il Signore dice:
“Dio vuole che tutti siano salvati e giungano alla Saggezza della verità” (1 Tm 2, 4). Ai suoi apostoli ai quali mancava questa Saggezza Egli disse: “Come siete privi di Saggezza! Non avete letto le Sacre Scritture? ” (Lc 24, 25-27). Il Vangelo aggiunge “Aprì loro l’intelligenza affinché potessero comprendere le Scritture”. Avendo acquisito questa Saggezza, gli Apostoli sapevano sempre se lo Spirito di Dio era con loro oppure no e, pieni di questo Spirito, affermavano che il loro operato era santo e gradito a Dio. E’ per questo che potevano scrivere nelle loro epistole: “E’ piaciuto allo Spirito Santo e a noi…” (At 15, 28). Essi inviavano i loro messaggi solo dopo che erano persuasi dalla sua presenza sensibile. Allora, amico di Dio, vedete com’è semplice?
— Tuttavia io non comprendo come posso essere assolutamente sicuro di trovarmi nello Spirito Santo. Come posso scoprire in me la sua manifestazione?
Il Padre Serafino mi disse:
— Vi ho già detto che è estremamente semplice e ve l’ho spiegato in dettaglio com’è che gli uomini si trovano nello Spirito Santo e come bisogna comprendere la sua manifestazione in noi… Che ci vuole ancora?
— Occorre che lo capisca veramente bene — Risposi.
Allora Padre Serafino mi prese le spalle e, stringendole molto forte, aggiunse:
— Siamo tutti e due, tu ed io, nella pienezza dello Spirito Santo. Perché non mi guardi?
— Non posso guardarvi, Padre. Dei fulmini lampeggiano dai vostri occhi. Il vostro viso è divenuto più luminoso del sole. Ho male agli occhi…
Il Padre Serafino disse:
— Non abbiate paura, amico di Dio. Siete diventato anche voi altrettanto luminoso perché anche voi ora siete nella pienezza dello Spirito Santo, altrimenti non avreste potuto vedermi così.
Inclinando la sua testa al mio orecchio aggiunse:
— Ringraziate il Signore di averci donato questa grazia indicibile. Non ho nemmeno fatto il segno della croce. In cuore ho semplicemente pensato e pregato “Signore, rendilo degno di vedere chiaramente, con gli occhi della carne, la discesa dello Spirito Santo, come ai tuoi eletti servitori quando tu ti sei degnato di apparire loro nella magnificenza della tua gloria!” Ed immediatamente Dio ha esaudito l’umile preghiera del miserabile Serafino. Come non ringraziarlo per questo dono straordinario che ci ha accordato? Non sempre Dio manifesta in tal modo la sua grazia ai grandi eremiti. Come una madre amorevole, questa grazia ha consolato il vostro cuore desolato, con la preghiera della stessa Madre di Dio… Ma perché non osate guardarmi negli occhi? Osate farlo senza paura, Dio è con noi.
Dopo queste parole sollevai i miei occhi sul suo viso e una paura ancor più grande si impossessò di me. Immaginatevi di vedere al centro del sole, mentre l’astro risplende con i suoi raggi più luminosi del mezzogiorno, il viso d’un uomo che vi parla. Vedete il movimento delle sue labbra, l’espressione cangiante dei suoi occhi, sentite il suono della sua voce, avvertite la pressione delle sue mani sulle vostre spalle ma, allo stesso tempo, non scorgete né le sue mani, né il suo corpo, né il vostro. Non vedete altro che una luce splendente che si propaga tutt’intorno ad una distanza di parecchi metri. Così tale luce era in grado di schiarire la neve che ricopriva il prato e di riflettersi sul grande starez e su me stesso. Si potrebbe mai descrivere bene la situazione nella quale mi trovai allora?
— Cosa sentite ora? Domandò Padre Serafino.
— Mi sento straordinariamente bene.
— Come “bene”? Cosa volete dire per “bene”?
— La mia anima è piena d’un silenzio e d’una pace inesprimibili.
— Amico di Dio, questa è la pace di cui parla il Signore quando dice ai suoi discepoli: “Io vi dono la pace ma non come la lascia il mondo. Sono io che ve la dono. Se voi foste di questo mondo il mondo vi amerebbe. Ma io vi ho eletti e il mondo vi odia. Comunque non abbiate timore perché io ho vinto il mondo” (Gv 14, 27 ; 15, 19, 16, 33). E’ proprio a questi uomini eletti da Dio ma odiati dal mondo che Dio dona la pace da voi sperimentata in questo momento. “Questa pace — dice l’Apostolo — sorpassa ogni comprensione” (Fil 4, 7). L’Apostolo la chiama così perché nessuna parola può esprimere il ben essere dello spirito ch’essa fa nascere nei cuori degli uomini quando il Signore la concede. Lui stesso la chiama “la mia pace” (Gv 14, 27). Essa è frutto della generosità di Cristo e non di questo mondo; nessuna felicità terrena la può dare. Inviata dall’alto, dallo stesso Dio, essa è la pace “di Dio”… Cosa sentite ancora?
— Una dolcezza straordinaria.
— E’ la dolcezza di cui parlano le Scritture: “Essi berranno la bevanda della tua casa e tu li colmerai con il torrente della tua dolcezza” (Ps 35, 9). Tale dolcezza trabocca dai nostri cuori, scorre nelle nostre vene, procura una sensazione e una delizia inesprimibile… Cosa sentite ancora?
— Una straordinaria gioia in tutto il cuore.
— Quando lo Spirito Santo scende sull’uomo con la pienezza dei suoi doni, l’animo umano è riempito d’una gioia indescrivibile; lo Spirito Santo ricrea nella gioia tutto quanto sfiora. E’ di questa gioia che il Signore parla nel Vangelo quando dice: “Una donna quando giunge la sua ora partorisce nel dolore; ma dopo che ha fatto nascere un bimbo non si ricorda più i suoi dolori, tant’è grande la sua gioia. Anche voi avrete da soffrire in questo mondo, ma quando vi visiterò i vostri cuori saranno nella gioia, una gioia che nessuno potrà rapirvi” (Gv 16, 21-22).
Per quanto grande e consolante sia la gioia che sperimentate in questo momento, essa non è nulla se paragonata a quella accennata dal Signore attraverso il suo Apostolo: “La gioia che Dio riserva a coloro che lo amano è al di là di ogni cosa che può essere vista, intesa e sentita dal cuore umano in questo mondo” (1 Cor 2, 9). Quanto ci viene concesso al momento presente non è altro che un acconto di questa gioia suprema. E se, in questo momento, sentiamo dolcezza, giubilo, ben essere, cosa diremo di quell’altra gioia che ci è riservata in cielo, dopo aver pianto su questa terra? Voi avete già abbastanza pianto nella vostra vita e vedete quale consolazione nella gioia via abbia donato il Signore. Ora tocca a noi, amico di Dio, lavorare con tutte le nostre forze per salire di gloria in gloria al fine di “costituire quest’Uomo perfetto, nella forza dell’età, che realizza la pienezza del Cristo” (Ef 4, 13). “Coloro che sperano nel Signore rinnovano le loro forze, hanno le ali delle aquile, corrono senza stancarsi e marciano senza fatica” (Is 40, 31). “Essi procederanno da altezza in altezza e Dio apparirà loro in Sion” (Ps 83, 8). E’ allora che la nostra attuale gioia, piccola e breve, si manifesterà in tutta la sua pienezza e nessuno potrà rapircela, dato che saremo riempiti di voluttà celesti… Cosa sentite ancora, amico di Dio?
— Uno straordinario calore.
— Come un calore? Non siamo forse nella foresta in pieno inverno? La neve e sotto i nostri piedi, noi ne siamo coperti ed essa continua a cadere… Di quale caldo si tratta?
— D’un caldo simile a quello dei bagni a vapore.
— E l’odore è come è come quello del bagno?
— Oh no! Nulla sulla terra può essere simile a questo profumo. Quando mia madre viveva ancora amavo ballare e, andando a divertirmi, mi cospargevo del profumo ch’essa comperava nei migliori negozi di Kazan pagandolo molto caro. Il suo odore non era per niente simile a questo sublime aroma.
Il padre Serafino sorrise.
— Lo conosco, amico mio, lo conosco altrettanto bene come voi ed è per questo che ve l’ho chiesto. E’ proprio vero. Nessun profumo sulla terra può essere comparato al buon odore che respiriamo in questo momento, il buon profumo dello Spirito Santo. Sulla terra cosa può assomigliargli? Avete appena detto di sentire caldo come in un bagno. Osservate! La neve che ci sta coprendo non si scioglie al pari di quella che sta sotto i nostri piedi. Il caldo non è dunque nell’aria ma dentro di noi. E’ quel caldo che lo Spirito Santo ci fa chiedere nella preghiera:
“Che il tuo Santo Spirito ci riscaldi!” Con tale calore gli eremiti, uomini e donne, potevano permettersi di sfidare il freddo dell’inverno, circondati com’erano d’un manto di pelliccia, d’un vestito intessuto dallo Spirito Santo.
In realtà è così che la Grazia divina abita nel più profondo della nostra anima e nel nostro cuore. Il Signore ha detto “Il Regno dei Cieli è dentro di voi” (Lc 17, 21). Per “Regno dei Cieli” Egli intende la Grazia dello Spirito Santo. Questo Regno di Dio ora è in noi. Lo Spirito Santo ci illumina e ci riscalda. Egli riempie l’aria con diverse profumazioni, fa gioire i nostri sensi e abbevera i nostri cuori con una gioia indicibile. Il nostro attuale stato è simile a quello di cui parla l’Apostolo Paolo “Il Regno dei Cieli non è questione di cibo o di bevanda ma di giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo” (Rm 14, 17). La nostra fede non si appoggia su parole di saggezza terrena ma sulla manifestazione della potenza dello Spirito. Lo stato nel quale ci troviamo in questo momento è quello che il Signore aveva visto quando disse: “In verità vi dico, alcuni tra coloro che sono qui non moriranno prima d’aver visto il Regno di Dio venire con potenza” (Mc 9, 1).
Ecco, amico di Dio, quale gioia incomparabile il Signore si è degnato di accordarci. Ecco cosa vuol dire essere “nella pienezza dello Spirito Santo”. E’ questo che intendeva san Macario l’egiziano quando scriveva: “Io stesso fui nella pienezza dello Spirito Santo”. Da umili che siamo il Signore ci ha riempiti con la pienezza del suo Spirito. Mi sembra che a partire da questo momento voi non avrete più bisogno d’interrogarmi sul modo in cui si manifesta nell’uomo la presenza della Grazia dello Spirito Santo.
Diffusione del messaggio
— Questa manifestazione resterà per sempre incisa nella vostra memoria?
— Non lo so, Padre, se Dio mi renderà degno di ricordare sempre questi fatti con la precisione di questo momento.
— Ma io, mi rispose lo starez, penso che Dio vi aiuterà a conservare queste cose per sempre. Altrimenti non sarebbe stato così velocemente toccato dall’umile preghiera del miserabile Serafino e non avrebbe esaudito così velocemente il suo desiderio. D’altra parte non è solamente a voi che è stato concesso vedere la manifestazione d’una tale grazia, ma attraverso voi, al mondo intero. Fatevi forza perché sarete utile ad altri.
Fonte:
Nuovo Sarov Press
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San Mel di Ardagh, Irlanda (+488)
6 febbraio
San Melis di Ardagh, o anche Mel (Irlanda, … – 6 febbraio 488), fu un sacerdote missionario e vescovo irlandese; è venerato come santo dalla Chiesa.
Fu il fondatore della Diocesi di Ardagh, nella contea di Longford, in Irlanda.
Come molti santi antichi, non si ha una biografia dettagliata. Si pensa sia figlio di Conis e Darerca, sorella di San Patrizio, che accompagnò il fratello in Irlanda per iniziare la sua opera di evangelizzazione. Mel divenne missionario molto giovane e San Patrizio gli affidò una chiesa che costruì ad Ardagh, in seguito Mel vi costruì un monastero. Divenne poi sacerdote e venne consacrato vescovo di Ardagh. Fu anche il vescovo che mise il velo a Santa Brigida. È patrono di Ardagh.
Si dice che fosse molto generoso e dava sempre quanto poteva ai poveri tenendo per sé il minimo indispensabile. Mel viveva con sua zia Lupait, e si diffuse un pettegolezzo secondo il quale ci sarebbe stato un rapporto tra i due, tanto che lo stesso Patrizio si mise ad indagare, ma Mel e sua zia erano molto pii ed entrambi pregarono per ricevere un miracolo: Patrizio andò a parlare con Mel riguardo alla vicenda, Mel stava arando e dal terreno saltò fuori un pesce vivo; mentre Lupait per provare la sua innocenza ha trasportato carbone ardente senza bruciare né lei né i suoi vestiti. Patrizio rimase così soddisfatto e non dubito più di suo nipote.
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Omelia sulla Natività del Signore
San Giovanni Crisostomo
PG 56, 385-394
Vedo uno strano paradossale mistero! Le mie orecchie risuonano dei canti dei pastori, ma i loro flauti non suonano una melliflua melodia, ma cantano con le labbra un inno celeste in totale pienezza.
Gli angeli inneggiano!
Gli Arcangeli uniscono le loro voci in armonia!
I Cherubini cantano la loro gioiosa lode!
I Serafini esaltano la sua gloria!
Tutti si riuniscono per lodare questa festa santa, vedendo la Divinità qui sulla terra, e l’uomo in cielo. Colui che è al di sopra dei cieli, ora per la nostra redenzione abita quaggiù, e colui che è stato umile è stato elevato dalla misericordia divina. Betlemme in questo giorno somiglia al cielo; invece di stelle ha ricevuto angeli, e al posto del sole, avvolge dentro di sé in ogni lato il Sole di giustizia. E non chiedetemi come: perché dove Dio vuole, l’ordine della natura si sottomette. Poiché Egli lo ha voluto, ne ha avuto il potere, è disceso, ha redento l’uomo; tutte le cose hanno cooperato con Lui a questo scopo. Oggi nasce Colui che eternamente è, e diviene ciò che non era. È Dio e diventa uomo! Diventa uomo senza smettere di essere Dio. Ancora, Egli è divenuto uomo senza alcuna perdita della divinità, e non è diventato Dio da uomo attraverso un accrescimento, ma essendo Logos si è fatto carne, la sua natura, a causa dell’impassibilità, è rimasta immutata.
Quando è nato, i Giudei non hanno accettato questa Sua insolita nascita. Da un lato i Farisei interpretavano male le Sacre Scritture e, dall’altro, gli scribi insegnavano cose completamente diverse. Ancora una volta Erode volle trovare il Bambino neonato non per onorarlo, ma per ucciderlo. Oggi essi si stropicciano gli occhi vedendo il Re del cielo sulla terra con una natura umana, nato da un utero verginale. Come dice Davide, Non le nasconderemo ai lori figli, alla generazione a venire. Così i re sono venuti e hanno visto il Re celeste venuto sulla terra, senza portare con sé Angeli, Arcangeli, Troni, Dominazioni, Potestà, Principati, ma seguendo una nuova e solitaria via: Egli è provenuto da un utero senza macchia. Eppure non ha abbandonato i suoi angeli, né li ha lasciati della sua custodia né, a causa della sua incarnazione, si è discostato dalla Divinità.
Ed ecco, sono venuti i re, per poter adorare il Re della gloria celeste; i soldati, per poter servire il Capo degli Eserciti del Cielo; le donne, per poter adorare Colui che è nato da una donna in modo che egli cambiasse i dolori del parto in gioia; le vergini, son giunte al Figlio della Vergine, per contemplare con gioia, come Egli, Datore del latte, che ha ordinato alle mammelle di riversarlo in rapidi ruscelli, riceve da una Vergine Madre il nutrimento dell’infanzia; i neonati, son giunti per poter adorare Colui che è divenuto un piccolo bimbo, in modo che dalla bocca dei bimbi e dei lattanti, potesse ricevere la lode; i bambini, son giunti al Bambino, che li ha elevati a martiri a causa della rabbia di Erode; gli uomini, son giunti a Colui che si è fatto uomo, in grado di guarire le miserie dei suoi servi; i pastori, son giunti al Buon Pastore che ha dato la sua vita per le pecore; i sacerdoti, son giunti a Colui che è divenuto il Sommo Sacerdote secondo l’ordine di Melchisedech; i servi, son giunti a Colui che ha preso su di sé la forma di un servo e può benedire la nostra schiavitù, con il premio della libertà; i pescatori, son giunti a Colui che, tra i pescatori, ha fatto diventare alcuni pescatori di uomini; i pubblicani, son giunti a Colui che di mezzo a loro ha chiamato e scelto un evangelista; le prostitute, son giunte a Colui che ha esposto i suoi piedi alle lacrime di una prostituta.
In poche parole, in modo che io possa abbracciarli tutti assieme, sono venuti tutti i peccatori che potevano per vedere l’Agnello di Dio che porta sulle sue spalle i peccati del mondo: I Magi per adorare; i pastori per glorificare; i pubblicani per proclamare; le prostitute per offrire mirra; la Samaritana per saziare la Sua sete; la donna Cananea per ricevere misericordia. Poiché dunque tutti si rallegrano, anch’io voglio gioire. Anch’io desidero condividere la danza corale, per celebrare la festa. Ma vi prendo parte, non pizzicando l’arpa, non agitando il tirso, non con la musica di trombe, né reggendo una torcia, ma tenendo tra le mie braccia le fasce di Cristo. Poiché tutto ciò è la mia speranza, questa è la mia vita, la mia salvezza, questa è la mia tromba e la mia arpa. Con essa giungo e, avendo dal suo potere ricevuto il dono della parola, canto anch’io, con gli angeli: Gloria a Dio nei cieli eccelsi; e con i pastori: e pace sia in terra e agli uomini la sua benevolenza! Oggi, Colui che è sorto prima dei secoli dal Padre in un modo ineffabile nasce da una vergine, per me in un modo inspiegabile. Allora nacque dal Padre secondo natura, prima dei secoli, nel modo conosciuto solo da chi l’ha generato; oggi, ancora, nasce fuori dalla sua natura, nel modo operato dalla grazia del Santo Spirito.
La sua celeste generazione è vera, la generazione terrestre non lo è di meno; è realmente Dio generato da Dio com’è pure vero che è nato uomo da una vergine. In cielo è l’unico ad essere nato dal solo Padre, Suo figlio Unigenito; sulla terra, è l’unico ad essere nato da una sola Vergine, suo figlio Unigenito. Come per la Sua generazione celeste sarebbe empio pensare ad una madre, egualmente per la Sua generazione terrestre sarebbe una bestemmia cercargli un padre. Il Padre l’ha generato senza seme e la Vergine l’ha partorito incorruttibilmente. Dio non ha affatto affrontato lo scorrimento della sua sostanza, poiché ha generato come conveniva ad un Dio; generandolo, quindi, in modo divino. Né la Vergine è stata sottomessa alla corruzione facendo un parto perché ha partorito attraverso lo Spirito. Quindi, né la Sua nascita celeste può essere spiegata da parole umane, né la Sua incarnazione può essere indagata. Oggi, conosco il fatto che la Vergine l’ha partorito e credo che Dio l’ha generato fuori dal tempo. Ma ho appreso che la Sua generazione dev’essere onorata in silenzio senza curiosità indiscreta e discussioni vane. Poiché, per quanto riguarda Dio, non occorre fermarsi all’evoluzione naturale delle cose, ma credere alla potenza di Colui che guida tutto.
È una legge naturale che una donna sposata partorisca. Ma quanto più paradossale è quando una vergine, senza aver conosciuto uomo, partorisce un bambino e in seguito resta vergine! Per questo si esplora ciò che è conforme alla natura; ma si deve onorare in silenzio quanto accade oltre la natura, non perché sia pericoloso ma perché è ineffabile. Ma accordatemi, vi prego, il permesso di porre fine a questo discorso già dal suo esordio. Infatti temo di elevarmi fino a questo livello di cose di cui non mi è permesso parlare e non so in quale direzione volgermi né come dirigere il timone. Sento timore di fronte al mistero divino. Cosa dire e come parlare? Vedo colei che ha partorito. Vedo anche Colui che è nato. Ma non riesco a capire il modo in cui accade la nascita. Vedete, quando Dio vuole, le leggi della natura sono sconfitte. Questo non accadde nella natura; è stato un miracolo oltre la natura. Ciò accade anche qui: l’ordine naturale non ha operato mentre ha agito la volontà del Sovrano. Quanto inesprimibile è la misericordia di Dio!
Il Figlio di Dio, prima dei secoli, l’incorruttibile, invisibile e intangibile, ha dimorato nel mio corpo visibile e corruttibile. Perché? Perché, come sapete, noi uomini crediamo più in ciò che vediamo che in ciò che sentiamo. Crediamo nelle cose visibili mentre dubitiamo quelle invisibili. Così non crediamo nel vero Dio invisibile, ma adoriamo gli idoli visibili sotto forma umana. Dio ha quindi accettato di presentarsi davanti a noi sotto forma umana visibile, per sciogliere così ogni dubbio sulla sua esistenza. Nasce dalla Vergine che ignorava quant’è relativo alla generazione, poiché non aveva cooperato per quanto accadde, non aveva contribuito a questo fatto ma fu un puro strumento della Sua ineffabile potenza, sapendo solo quanto udì da Gabriele, alla sua domanda: Come avverrà questo, poiché io non conosco uomo?. Egli le disse: ‘vuoi saperlo?’ Lo Spirito Santo verrà su di te e la potenza dell’Altissimo ti adombrerà. In che modo il Signore fu con lei, per ricevere poi da lei la generazione?
Proprio come l’artigiano, che quando trova un utilissimo materiale riesce in seguito a lavorarlo nel modo migliore, così fece anche Cristo. Egli, trovando santo il corpo e l’anima della Vergine, la ornò di un tempio animato, volendo in questo modo creare l’uomo nella Vergine. Rivestendosi di questo, oggi è venuto tra noi senza vergognarsi della bruttezza della natura. Per Lui non è stato un obbrobrio indossarsi di questa natura umana; infatti la creatura ha fruttificato una grande gloria, diventando la veste dell’artigiano. Perché come nella prima creazione, era impossibile per l’uomo esistere prima che la terra con la quale fu fatto venisse tra le mani del suo creatore; così era impossibile che il corpo corruttibile dell’uomo ricevesse una nuova natura prima che Colui che l’aveva creato non se ne rivestisse.
Che cosa posso dire o come posso parlare? Sono colmo di stupore dal grande miracolo! Vedo un bambino nel Dio preeterno! Si riposa in una mangiatoia Colui che ha il suo trono nel cielo! Delle mani umane toccano l’intangibile e inaccessibile! Colui che spezza le catene del peccato è fortemente legato nelle fasce! Perché questa è la Sua volontà: cambiare l’infamia in onore; rivestire di gloria la meschinità; trasformare l’offesa in virtù. Ha assunto il mio corpo perché il Suo Logos trovasse spazio in me; prendendo la mia carne mi dà il Suo Spirito. Mi dà il tesoro della vita eterna; prende e dà: prende la mia carne per santificarmi, mi dà il Suo Spirito per salvarmi. Cosa dire e come parlare?
Ecco: la vergine concepirà. Oramai questo non è più una realtà futura della quale si è parlato; è una realtà compiuta proposta alla nostra ammirazione. È accaduto tra i Giudei e tra di loro se ne parlava ma è stato creduto da noi, anche se non ne abbiamo mai sentito parola. Ecco: la vergine concepirà. Le parole sono della sinagoga, ma l’acquisizione della Chiesa. L’una ha trovato il libro, l’altra ha colto la perla. La sinagoga ha tinto il filo; la Chiesa ha indossato la veste reale. La Giudea l’ha generato; l’ecumene l’ha accolto. La sinagoga l’ha allattato e nutrito; la Chiesa l’ha ricevuto e ne ha tratto beneficio. Nella sinagoga fiorì la vite ma noi godiamo l’uva della verità. La sinagoga ha vendemmiato l’uva; i pagani, invece, bevono la bevanda segreta.
Lei ha seminato il seme in Giudea; i pagani, invece, hanno mietuto la spiga con la falce della fede; hanno tagliato con rispetto la rosa e ai giudei rimase la spina dell’incredulità. L’uccello volò, e questi sciocchi stanno ancora a custodire il nido. I Giudei stanno lottando per interpretare il libro della lettera, mentre i pagani vendemmiano il frutto dello Spirito. Ecco: la vergine concepirà. Dimmi allora, Giudeo, dimmi, chi ha partorito? Ti prego, mostra coraggio, anche quello che mostrasti di fronte a Erode. Ma non hai coraggio. Io so perché. Perché sei insidioso. Hai parlato ad Erode perché egli lo sterminasse; ma non ne parli a me perché io non lo veneri. Chi ha partorito, allora? Chi? Il Sovrano della natura! E se tu taci, la natura lo grida con voce tonante. L’ha partorito nel modo in cui Egli voleva essere nato. In natura non vi era la possibilità di una tale nascita. Ma Egli, in quanto signore della natura, ha introdotto un modo di nascita paradossale. E così ha mostrato che, pur divenendo uomo, non è nato come un uomo, ma come conviene a Dio solo.
Oggi, quindi, viene da una Vergine trionfando sulla natura, oltrepassando il matrimonio; perché al Dispensatore conveniva la santità, nascendo da un parto puro e santo. Colui che ha creato Adamo da terra vergine, Colui che da Adamo ha poi creato la donna, nasce oggi da una vergine figlia che ha sconfitto la natura. Allora Adamo, senza avere una donna, ha ottenuto una donna. La Vergine ora, senza avere un uomo, ha partorito un uomo. Perché è successo questo? Ecco perché: Le donne avevano un vecchio debito verso gli uomini, poiché da Adamo era spuntata una donna senza l’intervento di un’altra donna. Così la Vergine oggi, ripagando agli uomini il debito di Eva, partorisce senza un uomo. Poiché Adamo non avesse l’orgoglio di avere prodotto la donna senza l’aiuto di una donna, allora la vergine genera un uomo senza l’aiuto dell’uomo, per mostrare che l’uguaglianza deriva dalla parità delle meraviglie operate.
Dio rimosse da Adamo una costola, senza che egli venisse meno in qualsiasi cosa. Così, anche nella Vergine, creò un tempio animato senza sciogliere la verginità. Adamo rimase sano in seguito alla rimozione della sua costola; anche la Vergine rimase incorruttibile dopo la nascita di un bambino. Per questo non ha creato il tempio per sé altrove né ha creato un altro corpo per poi rivestirlo, perché non si creda che si disprezzi la umanità di Adamo. Poiché l’uomo, dopo essere stato ingannato dal diavolo, divenne il suo strumento, perciò Egli prese quest’uomo sottomesso al diavolo e lo rese tempio animato, per ritornarlo a Colui che l’aveva creato e staccarlo dal suo legame con il diavolo.
Dio si fa uomo ma nasce come Dio. Se fosse provenuto, come me, da un matrimonio comune, molti avrebbero considerato la Sua nascita fraudolenta. Per questo nasce da una vergine, per questo mantiene il suo utero intatto, per questo conserva integra la sua verginità: perché questo strano modo di nascita fosse motivo di fede incrollabile. Se un Pagano o un Giudeo mi chiedesse di spiegargli come il Cristo, essendo Dio secondo natura, divenne uomo oltre natura, gli dirò: Ecco, invoco come testimonianza il sigillo immacolato della verginità; perché Dio è colui che ha sconfitto l’ordine della natura; perché Dio è il vasaio del ventre e l’inventore della verginità; ha avuto un parto immacolato poiché si è costruito indicibilmente un tempio, secondo la Sua volontà.
Dimmi allora, Giudeo, la Vergine ha partorito o no? E se ha partorito, perché non confessi la nascita soprannaturale? Se, invece, non ha partorito perché hai ingannato Erode? Quando lui voleva sapere dove sarebbe nato Cristo, non gli hai detto A Betlemme di Giudea? Conoscevo io, forse, la città o il luogo? Conoscevo io, forse, il valore del Bambino che è venuto al mondo? Isaia e i profeti non ve ne hanno parlato? Partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele. E voi, ingrati nemici, non avete spiegato la verità? Voi, scribi e farisei, custodi precisi della legge, non ci avete insegnato su Cristo? Non siete stati voi a interpretare le Scritture? Conoscevamo, forse, la vostra lingua? E quando la Vergine ha partorito, non siete stati voi a presentare a Erode la testimonianza del profeta Michea? Ma da te, o Bethlehem Efrata, piccola per esser tra le città di Giuda, da te mi uscirà colui che sarà dominatore in Israele
Il profeta ha parlato molto bene dicendo “Da te”. Provenne da voi e si presentò al mondo intero. Colui che è, precede; colui che non è si crea o si fa. Mentre Egli era, era anche prima, ed è sempre stato. Era sempre in quanto Dio che governa il mondo. Oggi, si è presentato come un uomo per condurre gli uomini. Si è presentato come Dio, per salvare l’ecumene. Ma quanto preziosi siete voi nemici! Quanto filantropi siete voi accusatori! Voi avete accidentalmente dimostrato che il neonato di Betlemme è Dio. Avete riconosciuto il Sovrano nascosto nella mangiatoia. L’avete involontariamente predicato voi, mentre era seduto nella grotta. L’avete rivelato voi, cercando di nasconderlo. L’avete beneficiato voi, cercando di fargli del male.
Quanto maestri ignoranti siete davvero? Insegnate ma non conoscete. Avete fame ma cibate gli altri. Avete sete ma date da bere agli altri. Siete poverissimi ma arricchite gli altri. Venite, quindi, festeggiamo! Venite a solennizzare! È strano il modo di questa festa – quanto strano è anche il motivo della nascita di Cristo. Oggi si scoglie il legame di lunga durata. Il diavolo è svergognato. I demoni sono fuggiti. La morte è stata abolita. Il paradiso è aperto. La maledizione è svanita. Il peccato è stato cacciato. L’errore è stato allontanato. La verità è stata rivelata. La predicazione della pia fede si è riversata e diffusa in tutto il mondo. Il regno dei cieli è stato trapiantato sulla terra. Gli angeli parlano agli uomini. Gli uomini conversano con gli angeli senza timore.
Tutto è diventato uno. Perché? Perché Dio è sceso sulla terra e l’uomo è salito nei cieli. La prima cosa si è unita all’altra. Dio è sceso sulla terra continuando ad essere in cielo. È tutto intero nel cielo ed è tutto intero sulla terra. È diventato uomo essendo Dio, senza smettere di essere Dio. È senza passioni e ha assunto la carne, perché ha dimorato in noi. Non è diventato Dio, lo era. Per questo ha assunto la carne, perché Colui che il cielo non poteva trattenere, lo accogliesse la mangiatoia. Per questo si è messo nella mangiatoia, perché colui che nutre i mondi venga nutrito con cibo per bambini da una vergine madre. Per questo il Padre dei secoli futuri viene tenuto tra le braccia di una vergine madre come bambino lattante: perché fosse accessibile anche ai magi. Si tiene tra le braccia di una vergine e tra le mani tiene l’ecumene.
I magi corrono presso di Lui, rinunciando, per principio, al tiranno; il cielo, orgoglioso, mostra con la stella il Sovrano stesso e il Signore, seduto sulla leggera nuvola del corpo, il quale corre in Egitto per evitare l’insidia di Erode, adempiendo la verità della profezia di Isaia che ha detto: In quel giorno Israele sarà il terzo con l’Egitto e l’Assiria, una benedizione in mezzo alla terra. Li benedirà il Signore degli eserciti: «Benedetto sia l’Egiziano mio popolo, l’Assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità».
Che dici Giudeo? Tu che eri primo sei diventato terzo? Gli Egiziani e gli Assiri si sono messi davanti e il primogenito Israele è tornato in dietro? Sì. Così è. Gli Assiri saranno primi, perché loro, assieme ai loro magi, hanno venerato per primi il Signore. Poi gli Egiziani che lo ricevettero quando si rifugiò dalle loro parti per evitare l’insidia di Erode. Terzo e ultimo è il popolo d’Israele, che ha conosciuto il Signore dagli apostoli dopo il battesimo nel Giordano. È entrato in Egitto rovesciando tutti gli idoli non per niente ma per escludere dalla perdizione i primogeniti di Egitto. Per questo oggi è entrato come primogenito, per sciogliere la tristezza del vecchio lutto.
Cristo è primogenito, come testimonia anche Luca l’evangelista, dicendo: Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo. È entrato quindi in Egitto per sciogliere la tristezza del vecchio lutto, ponendo la gioia invece della frusta. Invece della notte e dell’oscurità dona lo splendore della salvezza. L’acqua del Giordano era profanata dal massacro degli immaturi neonati. È entrato in Egitto che aveva le acque rosse, facendo delle correnti del fiume dei generatori di salvezza, purificando l’empietà e la profanità con la potenza dello Spirito. Gli Egiziani, colpiti da diverse ferite e lasciandosi andare alla loro furia, avevano trascurato Dio. È entrato allora in Egitto e ha colmato di conoscenza divina le anime care a Dio in modo che la terra irrigata dal Nilo avesse presto più martiri che spighe.
Ma poiché il tempo è stretto decido a questo punto di cessare il discorso. Chiudo qui, avendo completato il discorso, in cui spiegavo che il Logos essendo privo di passioni, è diventato carne, senza mutare la Sua natura. Cos’altro c’è da dire, come parlare? Vedo il Creatore e la mangiatoia. Un infante e delle fasce. Una Vergine puerpera, disprezzata. Molta povertà. Molta indigenza. Eppure hai visto quanta ricchezza nella grande povertà? Come, essendo ricco, si è fatto povero per noi? Come non ha né letto né materasso e si è gettato per terra in una mangiatoia? O povertà, fonte di ricchezza! O ricchezza immisurabile, nascosta in mezzo alla povertà! Dimora all’interno della mangiatoia e ondeggia l’ecumene. È avvolto in fasce e rompe i legami del peccato. Ancora non ha pronunciato neanche una parola e ha insegnato la conoscenza di Dio ai magi.
Cosa dire o come parlare? Ecco il Bambino avvolto nelle fasce, sulla mangiatoia. Ecco Maria, Madre e contemporaneamente Vergine. Ecco Giuseppe, il padre presunto del Bambino. Lei è la donna e lui è l’uomo. Legittimi i nomi, ma privi di unione. Si riesce a capire finché si considerano le parole, ma non arriva alla natura delle cose. Giuseppe si è soltanto fidanzato mentre il Santo Spirito ha ombreggiato Maria. Così, pieno di meraviglia, non sapeva cosa supporre per il Bambino: non osava dire che è stato il frutto di un adulterio. Non poteva pronunciare parola blasfema nei confronti della Vergine. Non accettava neppure il Bambino come suo, perché era sconosciuto come e da chi fosse nato. Ma ecco che, nella sua confusione, riceve una risposta dal cielo, dalla voce dell’angelo: Giuseppe, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dal Santo Spirito. Il Santo Spirito ha quindi adombrato la Vergine.
Perché Cristo nasce da una vergine e conserva intatta la verginità? Perché un tempo il diavolo ha ingannato la vergine Eva. Ora Gabriele ha portato il messaggio liberatorio alla Vergine Maria. Un tempo Eva fu ingannata e pronunciò una parola che germinò la causa della morte. A Maria, invece, è stata annunciata la buona novella e ha generato il Verbo causa della vita eterna. La parola di Eva ha mostrato il legno attraverso il quale Adamo è stato scacciato. La parola di Maria, invece, ha mostrato la Croce, attraverso la quale il ladrone è stato portato in paradiso nella persona di Adamo. Poiché né i Pagani, né i Giudei, né i figli degli eretici hanno creduto che Dio è stato generato senza seme della sua natura ed è privo di passioni, per questo, oggi, Egli provenendo da un corpo che ha passioni, l’ha conservato senza passioni mostrando che, pur nascendo da una vergine, non ha sciolto la verginità. Così il Dio ingenerato senza perdere e mutare la sua santa essenza, ha generato Dio come Dio, in modo divino. Gli uomini, avendoLo abbandonato, scolpivano statue antropomorfe da adorare offendendo il Creatore. Perciò oggi, la Parola di Dio, essendo Dio, è emersa in forma umana per dissolvere la menzogna e riportare a Lui l’adorazione.
A Lui, dunque, che ristabilisce ogni cosa nel modo migliore, Cristo nostro Signore, innalziamo la gloria assieme al Padre e al Santo Spirito, ora e sempre, nei secoli dei secoli. Amin.
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San Deicolo di Irlanda e la Francia (+625)
18 gennaio
San Deicolo, in francese Deisle o Desle, in gaelico Dichuil o Dichul (Leinster, 530 circa – Lure, 18 gennaio 625), fu un monaco irlandese, fondatore ed abate di abbazie in Francia.
Discepolo di Colombano di Bobbio, partì con lui nel 576 dall’Irlanda per la Gallia, dove fondarono la grande abbazia di Luxeuil nei Vosgi. Quando nel 610 San Colombano fu esiliato in Italia da Teodorico II, San Deicolo fondò l’abbazia di Lure, arricchita e dotata di ogni genere di beni ad essa necessari dal re merovingio Clotario II, che aveva riconosciuto la qualità spirituali di Deicolo.
A Lure il monaco irlandese trascorse il resto della sua vita sino alla morte, avvenuta verso l’anno 625.
Deicolo era noto per i numerosi miracoli compiuti in vita ed in morte, attribuitigli da una biografia risalente al X secolo, scritta da un monaco di Lure.
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Cenni di storia dell’ortodossia dell’archimandrita
Padre Placide Deseille, Francia
La Chiesa indivisa del primo millennio
I primi tre secoli della Chiesa sono stati contrassegnati da fatti importanti: la notevole espansione del cristianesimo nell’Impero romano, e la feroce persecuzione dei cristiani in determinati periodi, fino alla convenzione di Milano (313) con cui l’imperatore Costantino il Grande concedeva libertà di culto ai seguaci di Cristo.
Gli apostoli e i loro primi successori fondarono molte chiese nelle città principali dell’Impero romano. In ogni città c’era una comunità cristiana di base, presieduta da un vescovo che, nominato originariamente dagli apostoli, era aiutato da presbiteri e diaconi. Questo tipo di organizzazione dal triplo ministero già verso la fine del I secolo era ben consolidato; è quanto appare con chiarezza già dagli Atti degli Apostoli e se ne fa menzione nelle lettere scritte tra 95 e 98 da san Clemente vescovo di Roma e verso il 107 da Sant’Ignazio, vescovo di Antiochia, mentre si recava a Roma dove sarebbe stato martirizzato. Sant’Ignazio fu il primo ad esprimere chiaramente che la comunità cristiana locale è Chiesa, idea che rimane il cuore della concezione ortodossa.
La preoccupazione principale dei cristiani, durante questo primo periodo, era innanzitutto la celebrazione della fede e la testimonianza di questa fede in un ambiente sovente ostile.
I primi discorsi esplicativi della fede cristiana sono stati scritti a partire dal II secolo – sono quelli di Ireneo di Lione, di Giustino, di Clemente di Alessandria, di Origene, di Tertulliano, scritti spesso per necessità di spiegare la fede di fronte al paganesimo e ai filosofi ellenisti all’esterno della Chiesa, e di precisarla di fronte agli insegnamenti erronei che la minacciavano dall’interno. Ma dopo la decisione rivoluzionaria nei confronti del cristianesimo da parte dell’Imperatore Costantino, nell’anno 313, le grandi controversie dottrinali hanno scosso e per secoli la Chiesa. Come notato, accennando alle principali dottrine elaborate dai sette Concili ecumenici, la Chiesa ha conservato “la vera fede” ponendo e difendendo i dogmi necessari alla fede. Ciò però è avvenuto non senza problemi, perché certe parti della Chiesa non hanno accettato tutte le decisioni dei Concili.
La prima frattura importante della Chiesa è avvenuta tra il IV e il V secolo, a seguito delle controversie cristologiche. La Chiesa di Persia divenne nestoriana e fu rotta la comunione tra le Chiese “calcedonesi” (Roma e Costantinopoli) – che accettarono le decisioni del Concilio di Calcedonia nel 451 – e le Chiese “anticalcedonesi”: le Chiese di Armenia, di Siria (la Chiesa giacobita), di Egitto ( la Chiesa copta), di Etiopia e dell’India.
Nei primi secoli, il Cristianesimo, universale nella sua missione, si espresse in tre culture maggiori: semitica o “orientale”, greca e latina. La prima grande scissione della Chiesa spaccò quasi completamente i Semiti e gli altri Orientali, lasciando i Greci e i Latini. In questo periodo, Greci e Latini formavano una sola Chiesa, testimoniando nelle loro rispettive sfere il messaggio evangelico e lottando contro le eresie – la maggior parte delle quali sono sorte nel mondo greco, fortemente influenzato dai filosofi ellenisti. E’ notevole, ad esempio, che i papi di Roma, nella lunga e talora sanguinosa disputa delle icone che non toccava affatto l’Occidente, abbiano sostenuto la dottrina ortodossa.
Nel primo millennio dell’era cristiana, la Chiesa intera era essenzialmente “ortodossa”: architettura delle chiese e arte iconografica (icone e non statue o quadri originali secondo il gusto e l’estro del singolo pittore), liturgia e sacramenti, spiritualità e disciplina ecclesiastica (non esisteva il celibato del clero, come ancora oggi nella Chiesa Ortodossa) in occidente come in oriente erano molto simili, se non proprio identiche a ciò che si trova ancora oggi nell’Ortodossia. Per lunghi secoli ci fu comunione di dogma, liturgia, di usanze e leggi, di mentalità e sensibilità religiosa: comune ad esempio era la concezione (tipica ancor oggi nell’ortodossia) della struttura della Chiesa, fondata sulla pienezza (plèroma) della partecipazione attiva di clero, popolo e monachesimo; i vescovi venivano concepiti come rappresentanti delle chiese locali, molto autonome le une di fronte alle altre; tutto questo trovava segno di unione visibile e storico non in una persona particolare, ma in una collegialità espressa dalla comunione delle cinque Chiese principali: Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme, la “pentarchia” il cui ordine di precedenza rifletteva l’importanza delle Chiese. Il popolo aveva (come ancora oggi nella Chiesa Ortodossa) la possibilità di annullare le decisioni di un concilio (Efeso 449, Firenze 1438-39) e di accettare o rifiutare l’ordinazione di un vescovo o di un sacerdote: come si sa, in effetti, finché Roma fu un patriarcato ortodosso, era il popolo romano a eleggere direttamente il papa; il sistema chiuso del Conclave fu imposto nel 1071 dal primo papa tedesco, Gregorio VII, uno dei maggiori responsabili della diversificazione tra occidente e oriente.
Lo scisma tra Oriente e Occidente
La Chiesa di Roma, per ragioni insieme politiche ed ecclesiali, finì col subire l’influenza del sistema feudale franco-germanico e avviò, non senza resistenze e contestazioni interne, quelle trasformazioni che la portarono, mano a mano che si feudalizzava, fuori dalla comunione con gli altri patriarcati. Insieme con le trasformazioni giuridiche, che portavano il sacerdozio ad assumere poteri monarchici non solo nella sfera spirituale, escludendo il popolo e il monachesimo dal tradizionale ruolo attivo, poco a poco venivano anche modificati dogmi, sacramenti, teologia, spiritualità, liturgia e arte liturgica.
Le ragioni profonde della separazione, le sole che ne spiegano la durata, sono propriamente religiose. Innanzitutto la questione della processione dello Spirito Santo, il Filioque. Tuttavia, la causa principale dello scisma fu di fatto la questione dell’autorità del papa. I papi dell’epoca (IX e X secolo) tentarono di trasformare un primato d’onore in un potere giuridico diretto su tutte le Chiese, nonostante i diritti tradizionali dei vescovi e dei patriarchi delle altre Chiese. Nel secolo XI, la riforma gregoriana volle sottomettere direttamente al papa non solamente i vescovi, ma anche i re – e in quel contesto rivendicò l’infallibilità del sovrano pontefice, dottrina occidentale che sarà elevata a dogma dal Concilio Vaticano I nel 1870.
Nel 1054, una delegazione del Papa Leone IX, mandata a Costantinopoli, capitale dell’Impero Romano d’Oriente, per negoziare un’alleanza politica ed una unione delle Chiese, depose sull’altare di Santa Sofia, la Chiesa imperiale di Costantinopoli, una sentenza di scomunica del Patriarca Michele Cerulario, il quale a sua volta scomunicò il Papa. Le reciproche scomuniche saranno tolte soltanto nel 1965 dal Papa Paolo VI e dal Patriarca Atenagora I, durante uno storico incontro a Gerusalemme.
L’irreparabile era stato consumato nel 1204: la IV crociata, deviata dalla Terra Santa per ragioni commerciali e politiche dai Veneziani, si diresse su Costantinopoli; la città fu saccheggiata, le icone e le reliquie furono profanate o rubate, sul trono patriarcale fu piazzata una prostituta, un Veneziano fu nominato Patriarca di Costantinopoli e un crociato divenne imperatore di Costantinopoli. Nel 1261 gli imperatori crociati furono allontanati da Costantinopoli, che ridivenne capitale dell’Impero Romano Ortodosso, erede della civiltà greco-romana e guardiano della fede ortodossa. Quell’ingerenza franco-latina, però, diede un colpo mortale all’Impero ortodosso, che lentamente crollò di fronte al potere sempre più grande dei musulmani turchi venuti dall’Asia.
L’ortodossia dopo lo scisma
Già nel IX e X secolo, Costantinopoli fu missionaria in Europa orientale, dal Caucaso ai Carpazi e sino al circolo polare. I santi Cirillo e Metodio tradussero la Bibbia e la liturgia in slavo per i Moravi, dando ai popoli slavi una lingua scritta, che costituisce ancora oggi la lingua liturgica di parecchi popoli slavi. I Bulgari e i Serbi furono battezzati nel IX secolo e i Russi del principato di Kiev nell’anno 988. Costantinopoli organizzò le nuove Chiese in metropoli ampiamente decentralizzate, ma il loro vescovo principale o metropolita viene consacrato dal patriarca di Costantinopoli.
Con la distruzione della Rus-Kiev ad opera dei Mongoli ed il ripiegamento delle popolazioni nelle foreste del nord-est, la Chiesa russa divenne la guardiana dell’anima nazionale. Nel XIV secolo, sotto l’impulso e la guida di san Sergio di Radonetz i monasteri si moltiplicarono, diventando centri di cultura cristiana e l’iconografia ortodossa conobbe uno dei suoi apogei, in particolare nel XVI secolo, con i grandi centri di Novgorod, Mosca e Pskov. La Chiesa russa a sua volta divenne missionaria, convertendo molti Mongoli e le tribù finniche del Nord. I missionari ortodossi raggiunsero Pechino nel 1714, poi, alla fine del XVIII secolo, le Isole Aleutine e l’Alaska – origine dell’Ortodossia nell’America del Nord.
Dal XIII secolo, al fine di ottenere dall’Occidente aiuto militare contro il potere turco che minacciava l’Impero, gli imperatori ortodossi cercarono di riavvicinarsi a Roma. Fu in tale contesto che, nei Concili di Lione (1274) e di Ferrara-Firenze (1438-39), i rappresentanti ortodossi, spinti dall’imperatore, capitolarono di fronte alle pretese romane riguardo all’autorità del papa e al filioque. Ma le conclusioni di quei Concili furono respinte dal popolo e dal clero, che rimasero fedeli alla fede ortodossa.
Nel 1453 i Turchi s’impadronirono di Costantinopoli, fu la fine dell’Impero romano ortodosso e la Russia divenne il baluardo dell’Ortodossia. Sotto l’Impero ottomano, la Chiesa fu ora perseguitata e ora tollerata; i quattro patriarcati tradizionali di Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme, ebbero per secoli un’esistenza precaria, che dura fino ad oggi in tutto il Medio oriente. Nello stesso tempo però, i grandi centri di spiritualità ortodossa, in particolare i monasteri di Santa Caterina sul Sinai e quelli del “Santo Monte”, il Monte Athos in Grecia, continuarono a splendere anche sotto la dominazione musulmana.
La Grecia fu liberata dal giogo ottomano nel 1832, la Bulgaria e la Serbia nel 1878 e le loro Chiese divennero autocefale. Nel XX secolo, la Chiesa di Grecia conosce una vera rinascita spirituale, con movimenti religiosi ed eminenti teologi ed un vigoroso risveglio monastico femminile e maschile guidato dalle grandi figure di asceti moderni che il Monte Athos continua a produrre.
Dal Santo Monte, come viene comunemente chiamato dagli ortodossi l’Athos, era partito quello che si chiama il“rinnovamento filocalico” della spiritualità ortodossa nel XIX e XX secolo. Nel 1782 un monaco del Monte Athos, san Nicodemo l’Aghiorita, e il vescovo di Corinto Macario, pubblicano a Venezia una monumentale Filocalìa (“amore della bellezza”), un florilegio di testi spirituali nella grande tradizione esicasta risalente ai Padri del Deserto del IV e V secolo, passando attraverso i grandi spirituali della Chiesa d’Oriente fino al XIV secolo. Tradotta da un monaco ucraino stabilitosi in Moldavia, san Païssi Velitchkovsky, la Filocalìa slava, poi russa, diventa la fonte della rinascita spirituale della Chiesa russa nel XIX secolo. Questa rinascita attinge le sue radici nell’esicasmo, segnatamente la preghiera di Gesù, e raggiunge il suo apogeo in personaggi come san Sérafino di Sarov e i santi starets del monastero di Optino. Questo rinnovamento filocalico è l’ispirazione del famoso “pellegrino russo” e continua ad influenzare non soltanto il mondo ortodosso, ma anche l’Occidente.
Nel XX secolo, dopo la rivoluzione bolscevica, tutta la violenza dell’ateismo e del materialismo moderni si è rovesciata sulla Chiesa russa, poi a partire dal 1945 sulle Chiese ortodosse di parecchi paesi dell’Europa dell’Est. Dal 1918 al 1941, la Chiesa Russa ha subito una delle persecuzioni più terribili che il mondo cristiano abbia conosciuto, con centinaia di migliaia di martiri. La maggior parte delle chiese, i monasteri e i seminari furono chiusi, fu vietata ogni forma di catechesi, nel 1925 fu sospeso il patriarcato e buona parte della gerarchia si sottomise allo stato comunista. Durante la seconda guerra mondiale, Stalin “normalizzò” le relazioni con la Chiesa, diverse chiese furono riaperte, e anche qualche monastero, alcuni seminari e accademie di teologia. Un nuovo periodo di persecuzione, non sanguinosa ma asfissiante, si abbatté sulla Chiesa tra il 1960 e il 1964 e poi ancora tra il 1979 e il 1985. Soltanto con la caduta del regime comunista, mentre era al potere Gorbaciov, alla fine degli anni ottanta, la Chiesa ortodossa in Russia è uscita dall’ombra in cui era vissuta per 70 anni.
L’incontro dell’ortodossia con l’Occidente
Uno dei grandi avvenimenti spirituali del XX secolo è stato l’incontro dell’Ortodossia con l’Occidente, grazie soprattutto alla presenza in Occidente della diaspora ortodossa, ucraina, russa e greca soprattutto, ma anche rumena, serba ed araba. Già alla fine del XIX secolo c’era in Europa occidentale e in America settentrionale un’importante presenza di immigrati ortodossi. La prima guerra mondiale e soprattutto i massacri del 1922 scatenati da Ataturk provocarono l’arrivo massiccio di rifugiati greci cacciati dalla Turchia. A partire dal 1920 dilagarono ondate di emigrati russi, cacciati dalla patria a causa della rivoluzione bolscevica. Fra questi, una parte dell’élite culturale russa si stabilì principalmente in Francia. L’indomani della seconda guerra mondiale, ad una seconda ondata di emigrati russi si aggiunsero Rumeni, Bulgari e Serbi. Dopo la crisi libanese, molti arabi cristiani provenienti dal Libano e dalla Siria si sono stabiliti in Europa ed in America del Nord. Ai nostri giorni, una terza ondata di immigrazione russa e balcanica, a seguito del crollo dell’Unione Sovietica, sta aumentando nei paesi occidentali la presenza di popolazioni venute dalla tradizione ortodossa.
Alla fine degli anni venti appaiono alcune “Ortodossie occidentali”, parrocchie che utilizzano nella liturgia le lingue occidentali. Esse sono scaturite sia dall’ insediamento progressivo degli immigrati e dei loro discendenti nei paesi di accoglienza, sia dalla conversione di Occidentali dal protestantesimo e dal cattolicesimo. La prima liturgia celebrata in francese risale al 1927 e la prima parrocchia francofona fu fondata a Parigi nel 1928. Così si sono formate parrocchie e diocesi che utilizzano nella liturgia il francese, l’inglese, il tedesco e ultimamente anche l’italiano.
L’ortodossia in Italia
In Italia la presenza ortodossa è antichissima. Anche se già dall’XI secolo i Normanni avevano strappato a Costantinopoli Calabria, Puglia e Sicilia, non riuscirono tuttavia a imporre immediatamente il cattolicesimo. L’ortodossia nell’Italia meridionale sopravvisse a lungo e solo nel periodo della controriforma (dal XVI secolo in avanti) essa venne faticosamente estirpata dall’Inquisizione. Tracce consistenti di questo recente passato rimangono in varie tradizioni e memorie popolari calabresi e pugliesi, nei toponimi e nella venerazione di numerose figure di santi locali del nostro meridione, che la Chiesa ortodossa commemora nel suo calendario.
Nei principali porti italiani da tempi immemorabili sono stabilmente insediate piccole comunità greche, la più importante delle quali è ancor oggi Venezia. Dopo la caduta di Costantinopoli la comunità greca veneziana divenne un centro della massima importanza grazie alla presenza di un vescovo ortodosso e alla prima tipografia moderna, che negli anni più duri della dominazione ottomana pubblicava liberamente i libri per la madre patria oppressa.
Il nuovo Concordato firmato tra il Vaticano e il Governo Italiano nel 1984 offriva agli ortodossi presenti in Italia una migliore possibilità di esprimere il loro culto. Nel 1989 Sua Santità Bartolomeo I, patriarca di Costantinopoli, fondava la Sacra Arcidiocesi Ortodossa d’Italia, consacrando dopo secoli, il primo Metropolita Ortodosso d’Italia. La Sacra Arcidiocesi Ortodossa d’Italia, riconosciuta come Persona Giuridica agli effetti civili dalla Repubblica Italiana già dal 1993, ha come scopo l’assistenza religiosa, spirituale, morale e sociale di tutti gli i cristiani ortodossi residenti in Italia senza distinzione di lingua, passaporto, provenienza, nazionalità. Il nucleo fondatore è costituito da chierici e fedeli greci appartenenti al Patriarcato di Costantinopoli, a cui l’Italia ha sempre fatto riferimento, come sopra ricordavamo. Ad essi si sono aggiunti chierici e fedeli russi, romeni, serbi, bulgari ucraini, moldavi, albanesi e recentemente anche italiani convertiti all’ortodossia.
Il 4 aprile 2007 ha segnato una svolta storica per l’ortodossia in Italia: il capo del Governo, Romano Prodi firmava l’intesa con Sua Eminenza Gennadio, arcivescovo ortodosso d’Italia e Malta ed Esarca per l’Europa Meridionale. I nuovi accordi presi con lo Stato Italiano permetteranno alla Chiesa Ortodossa non soltanto di godere di quella tolleranza che in Italia le è concessa da una ventina d’anni, ma anche di potersi sviluppare e meglio organizzare a favore di tutti i fedeli ortodossi che vivono attualmente nella nostra penisola (circa un milione) potendo beneficiare delle risorse derivanti dall’8 per 1000.
In Italia la massiccia ed improvvisa presenza di centinaia di migliaia di immigrati dall’Europa dell’est ha richiesto la presenza di chierici appartenenti anche ad altri patriarcati, soprattutto a quello di Mosca e di Bucarest. La comunione sacramentale e dogmatica con i sacerdoti di questi patriarcati è piena, anche se giuridicamente prestano obbedienza ad altri metropoliti che non risiedono in Italia. E’ importante tener presente che l’idea secondo cui la nazionalità e la chiesa devono coincidere, anche se attualmente serpeggia fra alcuni ortodossi e non, che la incoraggiano, è stata condannata come eretica due secoli fa, quando fu espressa la prima volta. Il nazionalismo ecclesiastico è un’eresia: i patriarcati nazionali, le chiese autocefale di recente formazione, come gli stessi patriarcati antichi, sono solamente suddivisioni amministrative dell’unica Chiesa ortodossa, la quale ritiene di essere la Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica. La prima vera patria degli ortodossi dunque è la Chiesa Ortodossa: non importa in quale lingua si celebri, non importa a quale patriarcato appartenga, non importa la provenienza etnica del sacerdote o dei fedeli.
La presenza delle popolazioni di immigrati di tradizione ortodossa in Italia e in genere in Occidente consente un contatto vero tra le due grandi tradizioni del cristianesimo. I cristiani occidentali possono scoprire nelle nostre parrocchie le tradizioni spirituali e liturgiche del cristianesimo antico, accuratamente trasmesse ed arricchite per secoli nella Chiesa ortodossa, rimasta fedele agli insegnamenti dei Padri e dei Concili ecumenici.
Fonte:
PARROCCHIA ORTODOSSA DI
SAN GIOVANNI BATTISTA IN TORINO
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Memoria dei Santi Ortodossi in terra d’Italia
Nel giorno odierno, seconda Domenica dopo Pentecoste, festeggiamo tutti i Santi della terra italiana:
Silvestro di Roma, Teoctista di Sicilia, Severino di Napoli, Aldo di Pavia, Senatore di Calabria, Tatiana di Roma, Efisio di Cagliari, Marcello di Roma, Prisca di Roma, Sebastiano di Roma, Xenia di Roma, Feliciano di Foligno, Felicita di Roma e i suoi sette figli, Geminiano di Modena, Perpetua di Roma, Agata di Catania, Riccardo di Lucca, Marcello e Pancrazio di Sicilia, Scolastica di Norcia, Benigno e Valentino dell’Umbria, Archelao di Oristano, Modesto di Avellino, Valentino di Terni, Luca di Messina, Faustino e Giovita di Brescia, Leone il Grande di Roma, Leone di Catania, Leoluca di Vibo Valentia, Gregorio il Dialogo di Roma, Nicodemo di Reggio Calabria, Benedetto di Norcia, Alessio di Roma, Crisanto e Daria di Roma, Giacomo e Cirillo di Catania, Nicone di Taormina, Severo di Catania, Stefano di Rossano, Secondo di Asti, Giuseppe l’Innografo di Siracusa, Filarete di Palermo, Zeno di Verona, Martino di Roma, Daniele di Taormina, Gennaro, Festo, Desiderio, Sosso, Procolo, Eutichete e Acuzio di Benevento, Cleto e Marcellino di Roma, Liberale di Treviso, Mercuriale di Forlì, Erasmo di Formia, Ciriaco di Ancona, Vittore di Varese, Giustino di Chieti, Gherasimo di Reggio Calabria, Vito, Crescenzia e Modesto di Lucania, Teodosio di Siracusa, Arsenio di Reggio Calabria, Giulia di Livorno, Simeone di Siracusa, Severino, Severiano e Concordio di Spoleto, Tecla e Susanna di Salerno, Cassiano di Lodi, Massimo e Vittorino dell’Aquila, Ceccardo di Luni, Silvero e Ormisda di Frosinone, Leucio di Brindisi, Giulio e Giuliano di Novara, Agrippina di Roma, Massimo di Torino, Prospero di Reggio Emilia, Vigilio di Trento, Severo di Foggia, Cosma e Damiano di Roma, Potito di Napoli, Lucia e altri di Roma, Pancrazio di Taormina, Patemiano delle Marche, Paolino di Lucca, Ermagora e Fortunato di Gorizia, Rosalia di Sicilia, Vitaliano di Capua, Apollinare e Vitale di Ravenna, Giovanni e Faustino di Calabria, Parasceve di Roma, Eusebio di Vercelli, Emidio di Ascoli Piceno, Donato di Arezzo, Fermo e Rustico di Verona, Stefano, Sisto, Felicissimo e Agapito di Roma, Euplio di Catania, Elia di Calabria, Bartolomeo di Calabria, Cetteo di Pescara, Oronzo, Giusto e Fortunato di Lecce, Alessandro di Bergamo, Liberio di Roma, Fantino di Calabria, Abbondio di Corno, Elpidio del Piceno, Grato di Aosta, Autonomo di Calabria, Venerio di La Spezia, Eustazio di Matera, Nilo di Rossano, Petronio di Bologna, Ambrogio di Stilo, Nazario, Protasio, Gervasio e Celso di Milano, Sabino di Catania, Gabino, Proto e Ianuario di Sassari, Gaudenzio di Brescia, Anastasia di Roma, Giusto di Trieste, Leonardo di Campobasso, Baudolino di Alessandria, Bartolomeo di Rossano, Solutore, Avventore e Ottavio di Torino, Colombano di Bobbio, Gregorio di Agrigento, Bellino di Rovigo, Teodora e Giorgio di Rossano, Eligio di Siena, Cromazio di Aquileia, Bibiana di Roma, Ambrogio di Milano, Antusa di Roma, Sirio di Pavia, Lucia di Siracusa, Lorenzo di Sicilia, Melania di Roma, e di tutti e tutte coloro che sono noti a Dio.
TROPARIO (APOLITICHIO) TONO 8°
Come un dono di grande valore, la Terra d’Italia ti offre, o Signore, tutti i Santi che l’hanno abbellita. Icona del Regno che verrà, ricca di intercessori, essa si appella alla tua tuttapura Madre, ai Santi Apostoli Pietro e Paolo e alle schiere dei martiri per rimanerti fedele nei secoli.
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San Martire Vescovo Paul Ballester Convalier in Messico dalla Spagna (Ex monaco Catolico)
Perché abbandonai la Chiesa Cattolica Romana
La mia conversione all’Ortodossia
Una eccezionale testimonianza storica del cammino verso la riscoperta della Fede Ortodossa e delle difficoltà che tale scelta poteva implicare negli anni ’50 del secolo scorso. Lo propongo ai lettori esattamente come scritto nella copia in mio possesso. E’ un testo lungo, ma si legge con piacere.
* * * * *
Di Paul Fr. Ballester Convalier – Atene 1954. Traduzione dal greco dell’Archimandrita Benedictos Katsanevakis, Napoli – presso la chiesa dei SS. Pietro e Paolo dei nazionali Elleni, 1955.
Al nascente movimento ortodosso italiano dedico
Invece di premessa
Nell’ottobre dell’anno scorso 1954 è sorto a Catania ed a Firenze, promosso da Italiani di puro sangue, un movimento che mira non ad un Cattolicesimo riformato, ma addirittura ad un ritorno completo e sincero alle origini, cioè alla genuina Chiesa Cristiana esistente prima del funesto grande scisma tra Oriente ed Occidente consumato dal Papa Urbano II nell’anno 1098 nel Sinodo di Bari da lui ivi convocato. I pionieri di tale movimento hanno trovato tale Chiesa primitiva nella Chiesa Ortodossa Cristiana che è infatti l’unica genuina continuatrice della Chiesa fondata da Gesù Cristo e divulgata dai SS. Apostoli.
È molto commovente il fatto che proprio in quest’anno che è il novecentesimo dagli inizi dei primi aperti contrasti ecclesiastici tra Occidente e Oriente, che condussero poi all’anzidetta separazione definitiva dell’anno 1098, ha inizio con il movimento Ortodosso italiano in parola, il ritorno alla retta dottrina di Cristo dei popoli Occidentali trascinati allo scisma. Il detto movimento Ortodosso italiano, pur giovanissimo e recentissimo, conta già in Catania ed in Firenze due Vescovi, quattro presbiteri, un diacono e circa duecento aderenti e moltissimi simpatizzanti.
Ora, il molto Rev. Paul Fr. Ballester Convalier ex Frate Francescano in Spagna – ora Presbitero Ortodosso – abbandonò anch’egli il Cattolicesimo Romano e scrisse poi in greco un opuscolo intitolato “La mia conversione all’Ortodossia” in cui espone con molta chiarezza il dramma della sua anima a tale riguardo. Egli spirito studioso, occasionalmente veniva messo in seri dubbi circa la verità di alcune dottrine fondamentali della Chiesa Romana a cui apparteneva ed ha cercato sinceramente e ad ogni costo e sacrificio di arrivare al fondo della questione. Ed è riuscito a trovarne, da solo, l’uscita dal cieco vicolo in cui inconsciamente si trovava. Il dramma spirituale esposto dal Rev. Convalier è, senza dubbio, il dramma di numerosissime altre anime incapaci di trovare l’uscita dal cieco vicolo. Per venire incontro a tale stato e specialmente a tutti i simpatizzanti del suddetto «Movimento Ortodosso italiano» sentiamo il dovere di presentare in debita traduzione il su riferito documento del Rev. Convalier, sostituendo il titolo originale: “La mia conversione all’Ortodossia” con quello: “Perché abbandonai la Chiesa Cattolica Romana”, come più adatto al contenuto e come più comprensibile ai lettori in Italia. Siamo convinti che finché l’Europa Occidentale e Centrale non sarà rieducata alla retta fede cristiana, direi riortodossata, studi sì fatti non saranno mai inutili.
Infine ringrazio il mio carissimo figlio in Cristo Sig. Augusto Scrino dell’aiuto letterario prestatomi per la sollecita traduzione del presente.
Napoli, 25 Marzo 1955.
Festa dell’Annunziazione di M. V.
† Archimandrita Benedictos Katsanevakis
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Due parole al lettore
Non è scopo di queste pagine una personale giustificazione della conversione dell’autore all’Ortodossia, ma esse, costituiscono una testimonianza apologetica, commovente e riconoscente della purezza della fede e dell’arditezza del suo insegnamento. L’originalità del presente studio, non consiste precisamente nel tema, per il quale sono già state scritte innumerevoli opere teoriche sotto ogni punto di vista ecclesiastico, ma nella maniera originale con cui esso viene svolto. Padre Ballester non si è contentato di presentare semplicemente la teorica espressione del suo giudizio teologico; egli è possessore di un modo di vivere teologico dal quale si è mosso verso il più doloroso dei cammini spirituali, verso il più penoso dei sacrifici: l’abbandono della sua Chiesa e l’allontanamento dalla sua patria. L’espressione di questo modo di vivere teologico e della sua autosincerità, solo una speciale ispirazione ed una rarissima forza di volontà gli potevano permettere di trasmutarla in una splendida realtà.
Durante la lettura dei capitoli che seguono, il lettore, avrà l’occasione di seguire devotamente, passo per passo, il cammino contestato di questo monaco Francescano dai suoi primi timidi dubbi fino alla più decisiva confessione della Ortodossia, quale vera Chiesa di Cristo. Confessioni di tal genere, sempre più in maggior numero e più frequenti, costituiscono anche un severo monito per quella Chiesa, la quale ha perduto ormai la sua medioevale occasione di mutarsi in un centro dittatoriale di un mostruoso impero politico-ecclesiastico. Costituiscono anche la più espressiva delle istruzioni per quei gruppi cristiani, i quali camminano ancora nel buio, per il ritrovamento del vero gregge. Ma, innanzitutto, sono una delle più incoraggianti lezioni, che oggi possiamo ricevere noi che siamo già ortodossi; una oggettiva ed appassionata testimonianza per la purezza della nostra eredità religiosa, una devotissima resa d’onore alla fedeltà con la quale i nostri progenitori seppero conservarla illesa, e in mezzo alle dure prove storiche e alle più sfavorevoli epoche.
Uomini, come l’autore del presente studio, i quali sanno cosa credono e perché, ed in qual modo sono giunti alla pienezza di questa fede e che sono pronti a dare testimonianza ed a fare apologia di essa con la stabilità di una certezza assoluta e con l’entusiasmo dei figli della Verità, sono chiamati in primo luogo a trasmettere la luce dell’Ortodossia al buio delle non Ortodosse filosofie cristiane con la potenza ed il successo con cui sarà possibile un giorno la realizzazione di quella Ecumenica brama di un solo gregge ad un solo Pastore, Gesù Cristo, per la quale il Signore pregò con tanta perseveranza, verso il Padre Celeste.
Marsiglia, Marzo 1954.
Stanislao Jedeezewsky
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I PRIMI DUBBI
Il lungo e faticoso cammino della mia conversione all’Ortodossia ebbe inizio, la prima volta, un giorno mentre ero occupato nella compilazione dei cataloghi della biblioteca di quel monastero Cattolico-Romano al quale appartenevo. Questo Monastero, uno dei più belli della Spagna nord-orientale, appartiene all’Ordine Monastico di S. Francesco d’Assisi ed è costruito sulla spiaggia mediterranea a pochi chilometri da Barcellona, mia città nativa. I superiori del monastero mi avevano incaricato di ricompilare i cataloghi delle opere e degli autori della nostra ricca biblioteca conventuale, onde metterli al corrente circa tutte le perdite d’incalcolabile valore che aveva subito durante l’ultima guerra civile spagnola, quando il nostro monastero fu incendiato e in parte distrutto dai comunisti. Una sera, quindi, mentre ero tutto preso dal lavoro, nascosto dietro una montagna di vecchi libri e manoscritti semibruciati, feci una scoperta che produsse in me grande meraviglia. In una busta, contenente scritti riferentisi alla Santa Inquisizione dell’anno 1647, trovai una copia in lingua latina di un Editto di Papa Innocenzo X col quale si scomunicava quale eretico ogni cristiano che osasse credere, seguire o comunicare ad altri l’insegnamento dell’Apostolo Paolo circa l’autenticità della sua dignità apostolica[1]. Continuando poi questo straordinario scritto faceva obbligo ad ogni fedele di credere, sotto la minaccia del castigo nell’oltre tomba, che l’Apostolo Paolo, in tutta la sua vita ed azione apostolica, cioè da quando si convertì al cristianesimo fino alla sua morte non aveva esercitato la sua opera apostolica liberamente ed indipendentemente da ogni potere temporale, ma contrariamente egli dipendeva in ogni momento dalla monarchica autorità dell’Apostolo Pietro, del Primo presunto Papa e Re della Chiesa. Questo assoluto potere, aggiungeva lo scritto in parola, lo ereditarono per successione diretta tutti gli altri Papi cioè i vescovi di Roma.
Confesso che se avessi rinvenuto nella biblioteca del monastero un libro messo all’«Index»[2] non mi sarei maggiormente meravigliato. Naturalmente non ignoravo gli eccessi ai quali erano incorsi i Tribunali della Santa Inquisizione nel Medio Evo e nei tempi posteriori in fatta di temi dogmatici. Era quella un’epoca in cui cercavano con ogni sacrificio di macchinare una giustificazione teologica delle ambizioni imperialistiche del papismo. Per la riuscita di tale progetto Roma aveva dato ordini espliciti ai teologi e predicatori onde dimostrare con ogni mezzo che i Papi avevano ricevuto da Dio il potere di regnare come Cesari sull’intera Chiesa Ecumenica, quali eredi del presunto primato dell’Apostolo Pietro. In tal modo s’intraprese in Occidente una vera campagna di diffamazione teologica dell’insegnamento Ortodosso relativo al detto presunto primato dell’Apostolo Pietro con il doppio scopo di essere messo il fondamento a qualche giustificazione teologica del Cesarepapismo da una parte e dall’altra minimizzare l’autorità dei Patriarchi d’Oriente di fronte alle pretese del loro confratello romano. Uno dei mezzi principali per l’adempimento di questo progetto fu una sorprendente moltitudine di pubblicazioni delle opere dei Santi Padri, opere falsificate o semplicemente apposta erroneamente interpretate. In queste opere falsificate si cercava intelligentemente e con l’aiuto di una errata interpretazione di alcuni passi evangelici[3] di far apparire il famoso «Primatus Petri» come un eccezionale privilegio che Dio concesse all’Apostolo Pietro e in seguito ai suoi supposti successori, i romani Pontefici, in virtù del quale, questi, avevano il diritto di esercitare una dittatura praticamente assoluta sulla Chiesa Universale, di fronte alla quale l’Ortodossa veniva descritta come ribelle. Così, una grande moltitudine di «Antologie» e di «Catene»[4] di passi patristici relativi al primato papale, gran parte dei quali sono assolutamente falsi ed il resto di essi contraffatti e con una base minima di contenuto autentico, uscirono dalle tipografie dei conventi dei principali ordini Monastici dell’Occidente circolando in sbalorditiva abbondanza nell’Europa Mediterranea[5]. Però, se i fedeli avessero meditato sul fatto che l’Apostolo Paolo e gli altri Apostoli non erano sottoposti al potere assoluto del così detto Primo Papa Simone Pietro, allora l’intero edificio dell’alterata dottrina del Papismo sarebbe crollato da per sé. Per questo motivo i Vescovi di Roma non smisero mai di condannare, scomunicare e terrorizzare con minacce di castighi spirituali e d’oltretomba, i fedeli che avessero tentato di manifestare il benché minimo dubbio in proposito.
I Tribunali della Santa Inquisizione sotto l’emblema «Il fine giustifica i mezzi»[6] presero mandato di porre in atto altri mezzi più convincenti, cioè di mandare al rogo e alle torture e di gettare nell’olio bollente o scorticare vivi i più ostinati e «impenitenti» cristiani «in nome della SS. Trinità e per il bene generale della Chiesa». Ciò nonostante, non mi aspettavo mai che il fanatismo della mia chiesa l’avesse spinta al punto di osare finanche la proibizione e la condanna d’insegnamenti che con molta chiarezza sono contenuti nelle Sacre Scritture e che furono insegnati dagli stessi Apostoli, come accadeva con lo scritto che tenevo fra le mani. Questo superava ogni limite, perché scomunicare i fedeli seguaci dell’insegnamento dell’Apostolo Paolo equivale ad una incomprensibile condanna della dottrina Ortodossa di questo Apostolo, il quale nella seconda sua Epistola ai Corinzi chiaramente dice che in nulla fu inferiore a nessuno degli altri Apostoli[7]. Quindi, quell’Editto di Papa Innocenzo X, mi sembrava così incredibile che preferii esaminare la possibilità di qualche errore tipografico o forse qualche fatale contraffazione del testo autentico, cosa che d’altra parte accadeva spesso all’epoca che la cronologia del documento indicava[8]. In ogni caso, però, autentico o falsificato che fosse, oppure semplicemente alterato, giunsi alla conclusione che questo testo costituiva nella nostra biblioteca conventuale, un elemento bibliografico veramente curioso e degno di ogni attenzione e di ogni studio.
Molto presto, però, il mio interessamento si mutò in turbamento, quando, dopo il confronto, nella Biblioteca centrale di Barcellona, accertai che non solo questo documento era assolutamente autentico ma che esso non costituiva l’unico monumento della sua specie. Difatti in due casi anteriori di quelle sentenze della Santa Inquisizione dell’anno 1647, cioè del 1329[9] e 1351[10] i Papi Giovanni XXII e Clemente VI avevano scomunicato e condannato ogni uomo e teoria che avessero tentato di negare che l’Apostolo Paolo aveva operato sotto gli incontestabili ordini e l’assoluto potere del presunto Primo dei Papi e cioè dell’Apostolo Pietro. Precisamente per la medesima ragione il Papa Martino V aveva scomunicato Giovanni Huss nel Sinodo di Costanza[11]. Posteriormente Pio IX nel Sinodo Vaticano[12], Pio X nel 1907 e Benedetto XIV il 1920, avevano ripetuto le medesime condanne nel modo più categorico e ufficiale[13].
Esclusa, quindi, in tal modo, ogni possibilità d’errore o, di falsificazione, non tardai a comprendere che con tutto ciò, cominciò a nascere in me un doloroso problema di coscienza. Perché personalmente mi era impossibile credere seriamente che l’Apostolo Paolo fosse stato guidato da qualche potere umano. L’indipendenza e la libertà della sua opera Apostolica presso i gentili, in paragone all’opera dell’Apostolo Pietro presso i giudei, costituisce per me un avvenimento molto serio che non ammette neanche la minima obiezione[14]. L’Apostolo Paolo «chiamato all’apostolato non dagli uomini né per mezzo d’alcun uomo»[15] considerava Simone Pietro come il secondo, dopo Giacomo[16] fra quelli «che sono reputati colonne» e che a Paolo piaceva di chiamare così perché «erano considerati di essere qualcosa» nella Chiesa di Cristo[17]. Però, aggiunge in seguito, che, il posto che essi prendono lo lascia completamente indifferente, trattandosi di semplici preferenze personali, che Dio non tiene seriamente in conto[18]. In ogni modo, l’Apostolo Paolo categoricamente afferma che chiunque siano gli altri Apostoli, lui non era inferiore a nessuno. Ciò per me era chiarissimo, specie se si prende in considerazione la spiegazione dei Santi Padri che su tale punto, non lascia alcun dubbio. S. Giovanni Crisostomo, per l’Apostolo Paolo dice: «Dichiara costui la sua parità con gli altri Apostoli e desidera confrontarsi non solo con tutti gli altri, ma anche col primo fra di loro, per dimostrare che tutti avevano la medesima missione e dignità»[19]. E difatti con assoluta unanimità, tutti i Padri insegnano che «Tutti gli Apostoli furono quello che era Pietro e tutti erano dotati dello stesso onore e potere»[20].
È impossibile essere sotto gli ordini di qualche autorità superiore di un altro di essi, perché l’assioma d’Apostolo è «il più grande potere, la vera vetta di tutte le potestà»[21]. Perciò S. Cipriano sostiene che «Tutti costoro, ugualmente, sono pastori, malgrado che uno è il gregge. E questo in piena concordia viene pascolato dagli Apostoli»[22]. E S. Ambrosio aggiunge a tale proposito: «Se l’Apostolo Pietro aveva qualche precedenza fra gli altri, questa fu precedenza di confessione non di onore. Precedenza di fede e non di classe»[23]. Giustamente, quindi, il medesimo Santo scriveva riferendosi al Papa: «Non possono essere eredi dell’Apostolo Pietro coloro i quali non osservano, come lui, la medesima Fede»[24].
Tutta la questione quindi era chiarissima. Ciò nonostante il dogma Cattolico romano che insegnava a riguardo perfettamente il contrario, mi poneva nel tremendo dilemma di scegliere in coscienza e a dispormi o col Vangelo e la Tradizione da una parte, o coll’insegnamento della mia Chiesa dall’altra. Perché secondo il dogma Romano ecclesiologico, al cristiano, per salvare la sua anima[25], è indispensabile credere che la Chiesa, costituisce chiaramente una monarchia[26] di cui Monarca è il Papa[27]. Perciò il Sinodo del Vaticano riassumendo in proposito tutti i precedenti verdetti, rese ufficialmente noto che: «Se qualcuno avesse detto che Pietro – presunto primo Papa e Vescovo di Roma – non fu costituito da Gesù Cristo quale Principe degli Apostoli e Capo visibile della Chiesa militante… sia scomunicato»[28].
Come mi sarebbe possibile concordare due tanto diametralmente opposte e conflagranti disposizioni dogmatiche?
I CONSIGLI DEL CONFESSORE
Essendomi trovato quale naufrago nella più inesorabile tempesta spirituale mi indirizzai al mio Confessore, al quale esposi in modo semplice e naturale il problema che mi tormentava. Il mio Confessore era uno dei più istruiti e prudenti Sacerdoti del monastero e non tardò a comprendere che il caso era uno dei più seri e complicati. Dopo essersi concentrato per un po’in silenzio nelle sue riflessioni, cercando invano una soddisfacente soluzione, si decise a dare un tale svolgimento al problema che confesso francamente non mi aspettavo:
«Le Scritture ed i Santi Padri – mi disse con il più naturale tono – vi hanno turbato. Lasciate da parte queste due cose e limitatevi a seguire fedelmente l’infallibile insegnamento della nostra Chiesa, senza indagare tanto nelle cose e senza domandare molto. Non permettete che le creature di Dio, qualunque esse siano, scandalizzino la vostra fede verso la Chiesa di Dio».
Tale inattesa risposta non fece altro che ingrandire maggiormente il mio turbamento spirituale. Avevo creduto sempre che la parola di Dio era esattamente quell’unica cosa che nessuno poteva «mettere da parte». Secondo la mia concezione la Scrittura è ciò che determina la retta posizione delle nostre credenze[29] e non sono le nostre credenze a determinare l’ortodossia della Santa Scrittura. E per dire con precisione, proprio dalla Santa Scrittura deriva a noi l’obbligo di «esaminare noi stessi se perseveriamo nella retta fede o no»[30]. «Non voglio sentire ciò “che dici tu” e ciò “che dico io” – dice S. Agostino – ma tutti e due dobbiamo ascoltare ciò “che dice il Signore”. Indubbiamente esistono libri del Signore, all’autenticità dei quali tutti e due ubbidiamo e ci sottomettiamo. In tali libri dunque dobbiamo cercare di trovare la vera Chiesa e solo in essi dobbiamo poggiare la nostra discussione»[31].
Il mio Confessore, senza per nulla darmi tempo a proporre la benché minima obiezione aggiunse: «Vi darò in cambio un elenco di nostri scrittori, nelle cui opere potrete trovare di nuovo la vostra calma spirituale, perché è in questi libri, che senza la minima difficoltà, potrete ritrovare l’insegnamento della nostra Chiesa». E chiedendomi se avessi «qualcosa di più interessante» da riferirgli, dette termine alla nostra conversazione. Pochi giorni dopo il mio Confessore se ne andò dal Monastero per un viaggio di predicazione in diverse Chiese e Monasteri del nostro Ordine. E lasciandomi il catalogo dei libri di cui mi aveva parlato, mi chiese di promettergli, che gli scrivessi spessissimo onde tenerlo al corrente dell’andamento dei «miei turbamenti spirituali».
Malgrado che le sue argomentazioni non mi avessero, per nulla persuaso raggruppai tutti quei libri con la decisione di studiarli con la maggiore possibile obiettività e scrupolosità. La più grande parte di questi libri era costituita da testi teologici e da manuali di decisioni papali e di Sinodi «ecumenici» papali. Mi misi con premura e sincero interesse allo studio di questi libri e senza prendere nessuna altra misura preventiva che la Santa Scrittura che tenevo aperta davanti a me «la lampada ai miei piedi e lume al mio sentiero»[32]. Né il mio Confessore, né l’intera mia Chiesa sarebbero riusciti a compararmi con gli Giudei, i quali furono biasimati dal Signore perché «erano in errore non conoscendo le Scritture»[33]. Contrariamente, anzi, sarei rimasto fedele secondo l’esempio di quei fedeli, che dopo aver accettato la parola di Dio «con ogni prontezza»[34] furono encomiati dall’Apostolo perché consultavano continuamente le Scritture onde controllare ogni cosa che insegnava loro[35] per non essere ingannati dalla «filosofia e da vane sottigliezze secondo la tradizione degli uomini e non secondo Cristo»[36].
Ma a mano a mano che avanzavo nella lettura e nello studio dei testi che mi avevano suggerito, cominciai, in principio piano e timidamente, con maggiore sicurezza poi, a persuadermi che fino allora ignoravo quasi completamente la vera natura e composizione organica della mia Chiesa. Dopo essere stato annoverato nel Cristianesimo e battezzato, verso la fine dei miei studi ginnasiali, seguii le lezioni di filosofia e allora mi trovavo ancora sulla soglia della teologia Cattolico-romana, cioè di una scienza che allora costituiva per me qualcosa di assolutamente nuovo e che mi compariva per la prima volta. Fino allora Cristianesimo e Chiesa Romana costituivano per me due idee, le quali esprimevano la medesima e indivisibile realtà. Nella mia vita Monastica che trascorreva tranquillamente ed indisturbatamente mi assorbiva soltanto l’aspetto puramente soprannaturale della questione, e poiché la mia attenzione era attratta dai miei studi filosofici, non mi si era presentata l’occasione di esaminare profondamente le ragioni e le basi della composizione organica della mia Chiesa. Fu precisamente in quei testi ufficiali, controllati con tanta perspicacia dal mio Confessore, che mi si cominciò a rivelare, sotto il suo reale aspetto, questa paradossale religioso-politica organizzazione monarchica che si appella Chiesa Romana.
Suppongo che un riassuntivo riesame dell’insegnamento dei su accennati libri, da me studiati, non sarebbe superfluo.
LA MONARCHIA DEL PAPA
Secondo la concezione cattolica-romana, la Chiesa, in primo luogo, «non è che una monarchia assoluta»[37] di cui il Papa è monarca, che, come tale agisce[38]. In questa monarchia del vescovo di Roma «consiste tutta la potenza e la stabilità della Chiesa»[39] che, «non potrebbe esistere senza di essa»[40]. Il Cristianesimo stesso, dicono i papisti, «si appoggia completamente sulla base del papismo»[41] e ancor di più, «il papismo è l’elemento più importante del Cristianesimo»[42] «la somma e la sostanza di esso»[43]. Il potere monarchico del Papa, quale «supremo Sovrano e Capo della Chiesa», «Pietra angolare», «Maestro infallibile della Fede», «Rappresentante unico di Dio sulla terra», «Pastore dei Pastori», «Vicario di Gesù Cristo», «Dolce Cristo in terra», «Dolce Cristo parlante» ecc. ecc. è assolutamente autoritario, in ogni momento esecutivo e si estende su tutto il mondo[44].
Tale autorità papale si estende, si dice, «per divino diritto» contemporaneamente[45] su tutti i battezzati del mondo intero e su ciascuno uomo separatamente[46]. Tale potere dittatoriale, quindi, può mettersi in azione in ogni momento su ogni cattolico cristiano direttamente sia laico che chierico, Vescovo, Arcivescovo, Cardinale ed anche Patriarca ed ancora su ogni Chiesa di qualunque specie liturgica e di qualunque lingua[47], perché il Papa è il primo vescovo in ogni vescovado o diocesi del mondo[48]. Coloro i quali negano di riconoscere tutto questo potere o non sottostanno ad esso «ciecamente»[49] sono «scismatici, eretici, empi e sacrileghi»; e le loro anime sono fin da ora predestinate a esser gettate nel fuoco eterno, in quanto da ogni punto di vista è indispensabile, per la salvezza dell’anima, la fede nella divina istituzione del Papato e la sottomissione ai suoi rappresentanti[50].
E così il Papa sembra incarnare quel fantastico Sovrano, nel sollecito avvento del quale credeva Cicerone, e per il quale scriveva che gli uomini avrebbero dovuto riconoscerlo per salvarsi[51]. E, sempre secondo il dogma Romano, «dato che il Papa, ha il diritto d’intervenire e giudicare su tutte le questioni spirituali di tutti e di ogni singolo cristiano, a maggior ragione ancora, può intervenire nelle loro questioni terrene e materiali»[52]. Per questa ragione egli può limitarsi soltanto alla imposizione di pene spirituali ed alla privazione della salvezza dell’anima di coloro, i quali negano di sottomettersi a lui, ma «similmente ha il diritto di obbligare i fedeli ad ubbidirgli costringendoveli»[53]. Ciò perché «la Chiesa tiene due spade: l’una simbolo del potere spirituale e l’altra simbolo di quello mondano o temporale. La prima spada sta nelle mani del clero e la seconda nelle mani dei Sovrani e soldati, ma similmente anche questa sta sotto il criterio e la volontà dei preti»[54].
Il Papa che pretende di essere il Rappresentante e Plenipotenziario sulla Terra di Colui «il cui regno non è di questo mondo»[55], di Colui il quale proibì agli Apostoli di esercitare la minima dominazione o sovranità sui fedeli è, con tutto ciò, anche Sovrano temporale facendo, in tal modo, continuare nella sua persona, la tradizione imperiale dei Cesari di Roma «della Città eterna» e regina del mondo[56]. Nel corso della storia, il Papa, divenne Padrone e Sovrano di grandi Stati e condusse le più sanguinose guerre contro gli altri Re cristiani al fine di conquistare una nuova parte di terra o anche, semplicemente, per soddisfare la sua insaziabile sete di dominio. Ottenne ancora migliaia di servi e svolse parte primaria e molte volte decisiva nella politica internazionale. Il «dovere dei Sovrani e Governanti cristiani» è di indietreggiare di fronte «al Re per divino diritto» cedendo il loro regno stesso a questo trono ecclesiastico-politico «che è stato istituito quale ornamento e sostegno di tutti i restanti troni del mondo»[57]. Oggi, il regno mondano del Papa, si limita alla sola Città del Vaticano, la quale costituisce uno Stato indipendente con rappresentanza diplomatica negli Stati dei cinque continenti del globo terrestre, con un esercito mercenario, con armi, polizia, prigioni, propria moneta circolante, commercio, ecc.
E come coronamento di questa sua onnipotenza, il Papa, ha ancora un’altra più tremenda prerogativa che nello stesso tempo è anche l’unica nell’intero mondo; è una mostruosa e inaudita prerogativa, simile alla quale nemmeno l’orgiastica fantasia delle più grossolane religioni idolatriche può mai sognare. Il Papa, secondo tale immaginaria prerogativa, è per diritto divino «Infallibile», secondo la definizione dogmatica del Concilio Vaticano dell’anno 1870[58]. Di conseguenza da allora l’umanità a lui deve rivolgere quelle parole che prima rivolgeva al Salvatore: «Tu hai, Signore, parole di vita eterna»[59]. In avvenire non c’è più bisogno della presenza dello Spirito Santo per guidare la Chiesa «in tutta la verità»[60] non c’è bisogno più nemmeno delle Sacre Scritture né della Tradizione, dato che già esiste un Dio sulla terra col potere di. rendere inutili o anche di proclamare ancora come errati gli insegnamenti di Dio dei Cieli[61].
In base a questa infallibilità, il Papa, e solamente il Papa, è il Canone della Fede[62], e può proclamare, anche senza il consenso della Chiesa, quanti che siano nuovi dogmi ai quali, i fedeli, hanno il rigoroso obbligo di credere ciecamente se vogliono sfuggire ai castighi dell’inferno nell’oltretomba[63].
«Dipende soltanto dalla volontà e dal piacere di Sua Santità – scriveva il Cardinale Baronius – che l’intera Chiesa creda sacro e santo ciò che lui desidera[64] e bisogna che le sue Epistole Pastorali siano considerate, credute e ubbidite «come scritture canoniche»[65]». Come logica conseguenza di tale infallibilità, risulta, che gli insegnamenti papali devono essere osservati con una tale cieca obbedienza che lo stesso Cardinale Bellarmino, il quale è stato proclamato «santo» dalla Chiesa Romana, nella sua celebre «Theologia»[66] espone tale supposizione con la più grande naturalezza: «Se qualche giorno il Papa avesse errato, consigliando peccati e proibendo virtù, la Chiesa, sottopena di peccato contro coscienza, sarebbe stata obbligata a credere che in realtà i peccati sono buoni e le virtù cattive». Il Cardinale Zabarella va ancora oltre e assicura che: «Se Dio e il Papa si radunano in un Concilio… il Papa può fare (colà) quasi tutto ciò che fa Dio… e il Papa fa tutto ciò che desidera, sia pure illegalità e in ciò, egli, è qualcosa più che Dio»[67].
Quando ebbi terminata la lettura di tutti quei libri consideravo me stesso estraneo in seno alla mia Chiesa la di cui composizione organica, era chiaro, non aveva nessuna relazione con la Chiesa istituita dal Signore, organizzata dagli Apostoli e i loro successori, e i SS. Padri avevano descritta e resa chiara. Secondo la mia concezione una tale organizzazione papista, difficilmente si sarebbe potuta identificare con la Chiesa di Cristo perché non è edificata sopra la roccia che è lo stesso Gesù Cristo ma sopra l’instabile sabbia d’immaginarie prerogative del Papa che si dice, ereditò da Simone Pietro il quale, però, non le aveva mai avute e neppure immaginate.
«Noi – dice S. Agostino, uno dei più grandi Padri della Chiesa Romana – noi, che siamo cristiani e che con le nostre parole e opere, non crediamo a Pietro, ma a Colui che lo stesso Pietro aveva creduto… Colui, il Cristo, il Maestro di Pietro il quale lo catechizzò alla strada che conduce alla vita eterna, Colui è anche il nostro unico Maestro»[68].
E difatti come sarebbe stato possibile ammettere seriamente l’infallibilità dei Papi, i quali usurpano il titolo di «esclusivi successori» dell’Apostolo Pietro che fu precisamente il solo fra tutti gli Apostoli, il quale, come disse lo stesso Signore, in determinati casi non sapeva quello che diceva[69]. Infallibile Simone Pietro, il quale fu ripreso dall’Apostolo Paolo perché «fosse da riprendere»[70], poiché «non camminava secondo la verità del Vangelo»?[71] Infallibili coloro i quali si autoappellano «legali successori di quello al trono e al Vescovado di Roma» dal momento che sapevo benissimo che fra essi s’incontrano non pochi nomi di generatori di tanti scandali, quali il Papa Marcello, notoriamente apostata e idolatra che sacrificava a Venere, come è a tutti noto, entro al medesimo tempio di questa e dinanzi al medesimo altare di essa?[72] Infallibile, dunque, Papa Giulio, il quale, fu scomunicato quale eretico dal Sinodo di Sardica?[73] Infallibile anche Liberio, che seguiva gli errori di Ario e condannò quale eretico S. Attanasio, il grande protagonista dell’Ortodossia?[74] Infallibile anche Papa Felice II per il quale, S. Attanasio dice che fu eletto Papa da tre suoi eunuchi e ordinato da tre spie dell’Imperatore, e fu aspirante degno dei suoi elettori della sua medesima pasta, dato che le di lui eretiche credenze erano pubblicamente note, e generalmente tutta la sua condotta nel suo insieme si adattava bene ad un Anticristo?[75] Infallibile Papa Onorio, il monotelita[76] e Gelasio, il quale seguiva credenze eretiche nel dogma della S. Eucaristia? Infallibile Papa Sisto V, del quale circolò una edizione delle S. Scritture «corretta con le sue stesse mani e nella pienezza della sua Apostolica autorità» la quale era tanta piena di errori di ogni sorta che fu necessario ritirarla subito nel mezzo del più grande scandalo?[77] Infallibile Urbano VIII che condannò quale eretica la teoria di Galileo secondo la quale la terra gira intorno al sole?[78] Infallibili i Papi Zaccaria il quale proibì sotto pena di scomunica di credere che la terra è rotonda?[79] e Pio II il quale ebbe l’ammirevole sincerità di avvertire amichevolmente il re Carlo VII di Francia che non bisogna credere in tutto ciò che i Papi dicono, perché il più delle volte parlano per passione o per interesse?[80] Infallibile Papa Pio IV, il quale ebbe l’ardire di trasgredire il VII Canone del Concilio Ecumenico di Efeso[81] e con ciò si rese spergiuro del giuramento che dette durante la cerimonia della sua intronizzazione?[82]
La Chiesa, dice S. Cipriano e non il Vescovo di Roma, è quella «pura e vivificante acqua, che non può essere intorbidita e misturata, perché la sorgente dalla quale scaturisce è pura e limpida»[83]. All’intera Chiesa e non esclusivamente ai Papi, Nostro Signore Gesù Cristo promise assistenza perpetua e continua fino alla consumazione dei secoli[84]. A favore di tutta la Chiesa, e non solo a Pietro e ai suoi presunti successori, promise d’invocare dal Padre Suo lo «Spirito della Verità»[85], quello Spirito che insegna tutta la verità[86] e tutto lo scibile[87]. E precisamente per questo motivo l’Apostolo Paolo chiama la Chiesa e non Pietro «colonna e base della Verità»[88]. E ancora, per la medesima ragione, S. Ireneo insegna che, in nessun altro luogo, ma soltanto nella Chiesa, bisogna cercare la Verità di Cristo, perché «solo nel seno della Chiesa troviamo questa Verità con tutta la certezza pura, integra, e non rimescolata»[89].
Non solo a Simone Pietro, ma a tutti insieme gli Apostoli e ai suoi discepoli il Signore disse: «Chi ascolta voi ascolta me»[90]. D’altra parte, durante il corso della storia della Chiesa antica, dall’epoca della sua istituzione fino al grande scisma, non v’è neppure il minimo precedente di un qualche disaccordo o qualche questione di fede di grande importanza che fosse stato risolto dai Vescovi di Roma. Cosa, secondo me, inspiegabile se questi ultimi, in effetti, fossero stati realmente riconosciuti ed ammessi quali veri Capi assoluti e di più infallibili della Chiesa Ecumenica. È universalmente noto che nessuna delle grandi eresie fu mai debellata dai Papi di Roma, ma, esse, furono combattute, sconfitte ed estirpate per mezzo di un Concilio Ecumenico o da un Padre della Chiesa o da qualche santo Teologo. L’arianesimo, per esempio, era condannato dal Concilio di Nicea e non dal Papa, che era egli stesso seguace di Ario. Il Concilio di Efeso neutralizzò il nestorianesimo. S. Epifanio fu colui che sconfisse gli gnostici, S. Agostino fu il grande confutatore del pelagianesimo e così di seguito.
Ancora di più: i Vescovi di Roma, non furono giudici in nessuna di queste grandi questioni ecclesiastiche, ma, viceversa, più delle volte, ne erano imputati, accusati e perfino giudicati da altri Vescovi, Patriarchi, Sinodi e Concili. Così, il Sinodo di Arelate decide sul dissidio sorto tra il Vescovo di Roma e quelli d’Africa circa la questione dell’anabattesimo[91]. Anche la Chiesa Africana scrisse al Vescovo di Roma come a quello di Alessandria esortandoli severamente a pacificarsi[92]. Il Patriarca d’Alessandria con i Vescovi Orientali scomunicò Papa Giulio nel Sinodo di Sardica[93]. Papa Onorio fu condannato e scomunicato dal VI Concilio Ecumenico[94], ecc. ecc.
Avendo assoluta convinzione di tutto ciò, convinzione, che d’allora in poi in nessun modo m’abbandonò, scrissi al mio confessore la prima lettera dopo la nostra separazione.
«Ho studiato i libri che la Vostra Reverenza ebbe la bontà di consigliarmi. Ciò nonostante, la mia coscienza non mi permette di trasgredire ai comandamenti di Dio prestando fede ad insegnamenti umani[95] che non hanno neppure la minima base Biblica. Tali insegnamenti sono la catena degli insegnamenti sul Papismo i quali vengono coronati dallo sragionamento sulla infallibilità. «Noi possiamo riconoscere la vera Chiesa basandoci – dice S. Agostino – sul criterio biblico, e non appoggiati su detti e su sentenze, né sui Sinodi dei Vescovi, né sulla lettera morta dei dissidi, chiunque essi siano, né su fallaci presagi e prodigi, ma soltanto su ciò che si trova scritto sulle predicazioni dei Profeti, sui Salmi, sulle parole dello stesso Buon Pastore Gesù, sulle opere e sugli insegnamenti degli Evangelisti e in una parola, sulla canonica autenticità delle Sacre Scritture»[96]. Questo stesso Padre scrisse contro i Donatisti: «Non voglio più sentire questo “tu dici” e “io dico”, ma noi tutti sentiamoci “così dice il Signore”». Indubbiamente vi sono libri del Signore, sulla cui autenticità entrambi concordiamo, ubbidiamo e ci sottomettiamo. In essi quindi ricerchiamo la Chiesa e su di essi discutiamo la nostra discordia e differenza»[97]».
Terminai la lettera al mio Confessore con queste parole: «Non mi allontanerò, quindi, mai da ciò che costituisce il vero canone cristiano per la prova e la conoscenza della vera fede e per la veridicità e genuinità di ogni dogma: cioè non mi allontanerò mai e poi mai dall’autenticità della parola di Dio e dalla Tradizione della sua Chiesa[98]. E certo i vostri dogmi sono inconciliabili con il detto canone».
La risposta non tardò a venire: «La Vostra Reverenza non ha ascoltato i consigli e gli orientamenti che le ho dato – lamentava il mio confessore – e ha lasciato che la Bibbia continuasse la sua pericolosa influenza sulla sua anima. I Santi Libri sono come il fuoco, il quale quando non illumina, brucia e annerisce… e appunto per questa ragione i Papi saggiamente decretarono che «si tratta di uno scandaloso errore credere che tutti possono leggere le Sacre Scritture[99] ed i nostri Teologi confermano che i libri Sacri della Bibbia costituiscono una oscura nube, un recinto ove anche gli atei ancora possono trincerarsi»[100]. «La fede nella chiarezza delle Scritture costituisce un dogma eterodosso[101] dicono i nostri infallibili Capi. Riguardo poi alla Tradizione, non ritengo necessario ricordare alla Reverenza Vostra, che dobbiamo «seguire innanzi tutto il Papa quando si tratta di questioni di fede anziché a migliaia di Santi Agostini, Girolami, Gregori, Crisostomi», ecc.[102]. E quando abbiamo la interpretazione dataci da Roma riguardo a qualsiasi testo della Bibbia se pure tale interpretazione può sembrare assurda e contraria allo stesso concetto del testo bisogna che noi crediamo di essere in possesso della Verità della parola di Dio[103]».
Tutte queste cose consolidarono maggiormente le mie convinzioni. Con tutte le sue teorie, con tutti i dogmi della nostra Chiesa contrari anche con lo stesso Papa, io, non avrei potuto mai mettere da parte la parola di Dio, la quale è assolutamente e incontestabilmente retta e chiara per quelli che hanno trovato la vera conoscenza[104]. Questo è la parola della Luce[105], che può sembrare oscura solo a quelli che vanno verso la perdizione e dei quali il Dio di questo secolo ha accecato lo spirito[106]. La S. Scrittura è ancora la parola di Vita[107], della Grazia[108], della Virtù[109] e della Salvezza[110] e non desideravo divenire colpevole e accusato nell’ora del Giudizio trascurandola ora[111]. Io sapevo precisamente che la fede nelle S. Scritture è la fede più retta di tutte[112], e assolutamente cattolica[113], giacché solo la S. Scrittura è sufficiente, come dice S. Attanasio, alla professione della Verità[114]. Perciò S. Giovanni Crisostomo mette in rilievo che: «quando abbiamo la Sacra Scrittura è insensato cercare altri maestri al di fuori di questa»[115]. «In essa – scrive Sant’Isidoro Pelusiota – esiste tutto quanto è necessario conoscere»[116] e «tutto ciò che c’interessa imparare»[117]. Secondo S. Basilio il grande: «è una evidente imperfezione della nostra fede ed una prova di superbia, il rigettare qualcosa di quanto è scritto ivi, o, al contrario, ammettere qualcosa che ivi non è scritto»[118]. Da ciò giustamente i SS. Padri ne concludono che «bisogna credere solo in quello che è scritto nei sacri Libri e ciò che ivi non è scritto, non bisogna cercarlo[119] né utilizzarlo mai»[120].
La mia Chiesa, colpendo la S. Scrittura, non ottenne null’altro che perdere davanti ai miei occhi ogni autorità, perché divenne simile a quelli eretici per i quali S. Ireneo dice che «perché furono ripresi dalla parola di Dio ritornarono di nuovo contro di Essa per criticarla»[121]. «Colui che si adatta alle S. Scritture – dice il gran Crisostomo – è cristiano. Se qualcuno la polemizza egli cammina fuori del canone. Se però nello stesso tempo, egli viene a dirvi che la S. Scrittura insegna ciò che lui crede, allora ditemi, voi, non avete criterio e intelletto?»[122].
Questo fu il mio ultimo contatto che ebbi col mio Confessore. Dopo di ciò non credetti opportuno continuare la nostra corrispondenza e non gli scrissi più. Nemmeno lui da allora in poi cercò di sapere di me, preferendo non impicciarsi oltre del «mio spiacevole caso» dato che indubbiamente ciò avrebbe potuto danneggiarlo nelle sue splendide possibilità che aveva per essere ordinato Vescovo «Apostolicae Sedis Gratia» che tanto fedelmente aveva servito in ogni momento.
Io, però, non mi fermai. Avevo cominciato «a deviare dal deviamento» della mia Chiesa, seguendo una strada per la quale non era possibile fermarmi se non prima d’aver trovato un luogo sicuro, almeno teoricamente. Il dramma che vissi in quei giorni era che, mentre sentivo me stesso allontanarmi sempre più dal papismo, dall’altro canto, non mi sentivo di avvicinare a nessun’altra realtà ecclesiastica. L’Ortodossia, il Protestantesimo e l’Anglicanesimo non costituivano allora per me che delle idee abbastanza confuse, e non era ancora giunta né l’ora né l’occasione di pensare al come avrebbero potuto avere la benché minima relazione col mio caso personale. Ciononostante amavo la mia Chiesa che mi aveva fatto cristiano e della quale indossavo la tonaca. Era perciò necessario approfondirmi e occuparmi sempre più largamente dello studio della questione, per giungere piano piano e con tristezza alla accorata certezza, che questa Chiesa in realtà era inesistente, e non occupava nessun posto entro il regime papista. E difatti, innanzi al potere dittatoriale del Papa, l’autorità della Chiesa e del corpo episcopale è praticamente nulla. Perché secondo la loro teologia «l’autorità della Chiesa è autentica ed efficace solo quando si armonizza con la volontà del Papa. In caso contrario l’autorità della Chiesa non ha assolutamente nessun valore»[123]. Perciò, quindi, il medesimo valore ha il Papa essendo assieme con la Chiesa e il Papa senza la Chiesa; con altre parole, il Papa è il tutto e la Chiesa non è nulla. Giustamente, quindi, scriveva con dolore il Vescovo More: «Mutando la sintesi della Chiesa, mutiamo anche il di lei dogma. E da ora innanzi sarebbe più retto salmodiare nella divina Liturgia : «Credo al Papa» anziché dire: «Credo in Una, Santa, Universale e Apostolica Chiesa»[124].
Il significato e l’importanza dei Vescovi nella Chiesa Romana consiste nell’occupare un posto di un semplice rappresentante subordinato all’autorità papale sparsi in tutti gli angoli del mondo, alla quale autorità papale si sottomettono nello stesso modo come si sottomettono anche i semplici fedeli. I papisti si sforzano di giustificare tale stato di cose che prevale, basandosi su una assurda interpretazione del 21° capitolo del Vangelo di Giovanni[125] secondo il quale, dicono loro: «Il Signore affidò a S. Pietro, primo Papa, il mandato pastorale sui Suoi agnelli e sulle sue pecore, cioè il mandato di massimo, unico ed assoluto Pastore su tutti i fedeli che vi sono simboleggiati con gli agnelli e su tutti i restanti Apostoli e Vescovi, i quali vi sono simboleggiati con le pecorelle»[126]. Ma anche i Vescovi nel cattolicesimo romano non sono per idea successori degli Apostoli[127], perché «l’autorità spettante agli Apostoli spirò con essi e perciò non si trasmise ai loro successori nel vescovado». Soltanto l’autorità di S. Pietro, alla dipendenza del quale si trovavano tutti gli altri si trasmise ai successori, i quali vennero dopo di lui al Papismo[128]. Perciò «esiste una grande differenza nel succedersi a S. Pietro e nel succedersi ad uno qualunque degli altri Apostoli. Il Pontefice romano, quindi, solamente, succede a S. Pietro quale legale Pastore di tutta la Chiesa e per conseguenza ha tutta l’autorità che deriva da Colui dal quale Pietro la ricevette. Mentre i restanti Vescovi non succedono nel vero senso della parola agli Apostoli, perché questi ultimi non erano che dei semplici accreditati Pastori dei quali non può esistere un successore».
I Vescovi quindi giacché secondo il papismo, non ereditarono nessuna autorità Apostolica, non dispongono di nessun’altra potestà, fuori di quella che ricevettero, non direttamente da Dio, ma dal Sommo Pontefice. «La giurisdizione dei Vescovi deriva direttamente e immediatamente dal Papa»[129]. Ciò, secondo la mia opinione, è una ingiustificabile offesa alla dignità episcopale, il di cui valore veniva umiliato, sacrificandolo in favore di un presunto grado, superiore cioè all’autorità papale. Non era indispensabilmente necessario sapere perfettamente e completamente la storia dell’antica Chiesa per comprendere che, già dai tempi Apostolici i Vescovi fondavano sempre la loro autorità basandosi sul fatto «che succedettero agli Apostoli, governando la Chiesa, tutti con la medesima facoltà[130] e col medesimo ministero degli Apostoli»[131]. S. Attanasio parla del ministero dei Vescovi come qualcosa che il Signore consacrò per mezzo degli Apostoli[132]. S. Gregorio il grande insegna chiaramente: «Oggi i Vescovi occupano nella Chiesa il posto degli Apostoli»[133].
S. Ignazio di Antiochia dice che l’autorità Apostolica che hanno ricevuto i Vescovi, proviene da Dio Padre[134]; e aggiunge che il Vescovo non va sottomesso a nessun altro che al medesimo N. S. Gesù Cristo[135]. Da ciò «la catena d’oro che unisce i fedeli con Dio, passa da anello in anello dai Vescovi agli Apostoli, dagli Apostoli a Gesù Cristo e da Gesù Cristo al Padre[136]». Questo tradizionale insegnamento è tanto chiaramente esposto dai SS. Padri che per conto mio non esisteva alcun dubbio. Basta leggere gli antichi cataloghi dei Vescovi che a noi ci hanno lasciato S. Ireneo, Tertulliano, Eusebio, S. Girolamo, S. Optato di Mileve e tanti altri Padri storiografi ecclesiastici, i quali cercarono di annotare e descrivere con la più dettagliata cura le successioni dei Vescovi che diressero le diverse chiese fondate dagli Apostoli. Dopo i nomi degli Apostoli fondatori vennero annotati, successivamente, i nomi di tutti i Vescovi di ogni seggio, fino all’epoca degli autori di questi cataloghi. Ora, perché tanta cura, tanto interessamento e tanta attenzione per poter dimostrare tale apostolica successione, se, come pretende il papismo che «l’autorità degli Apostoli si estinse con gli stessi Apostoli e non si trasmise ai loro successori nel ministero Episcopale?»[137].
Per logica conseguenza degli insegnamenti papisti circa l’autorità e la potestà dei Vescovi, nella Chiesa Romana, si crede, che gli stessi Concili Ecumenici non hanno altro valore che quello in cui il Papa si compiace concedere loro. «I Concili Ecumenici – dicono i papisti – non sono né possono essere altro che una Congregazione del Cristianesimo riunita per virtù del podere del Capo Supremo e sotto la presidenza di esso»[138]. Ora, dato che tale Supremo Capo non è il Signore ma il Papa, in linea di massima non può esistere Concilio Ecumenico se non convocato sotto la presidenza personale del Papa[139] o di uno dei suoi immediati rappresentanti[140]. In qualunque momento durante un Concilio Ecumenico il Papa da solo lo può sciogliere, differire o trasferire[141]; basta solo che egli esca dalla sala delle riunioni dicendo: «Io non sono più qui» che il Concilio Ecumenico, sia trasformato da quel momento in una riunione privata, e, se i suoi membri insistono ancora, «esso si trasforma in una congiura illegale e scismatica»[142]. I Canoni stessi del Concilio non hanno il minimo valore se non accettati e ratificati dal Papa, e se non saranno timbrati con il timbro dell’autorità di lui[143].
Dopo la lettura di tutti questi testi cominciai ad intuire qualche cosa che fino a quel momento mi era rimasto incomprensibile, che i Vescovi cattolici romani di tutte le contrade del mondo, radunati il 1896 in Sinodo nel Vaticano avevano aderito alla riduzione della loro autorità ed alla loro tramutazione in muti servi del Vescovo di Roma ammettendo il dogma dell’infallibilità papale. Il Papa era ivi semplicemente il Dittatore del Sinodo, dal giorno del suo inizio fino al termine di esso, di modo che era impossibile non realizzarsi ivi ciò che egli desiderava come pure era impossibile stabilirsi nel Sinodo qualcosa senza la volontà del Dittatore. Infatti, così viene dimostrato dalle dichiarazioni del Vescovo Tedesco Strosmayer, uno dei membri del Sinodo la cui retta coscienza si scandalizzò dinanzi allo spettacolo che presentarono i Vescovi privi di autorità e di libera volontà di fronte ad un onnipotente Papa: «Nel Sinodo del Vaticano – egli disse – non avevamo la necessaria libertà; a causa di ciò esso non può essere chiamato un vero Sinodo né può avere diritto di emettere dei canoni che potessero imporre l’ubbidienza alle coscienze dell’intero mondo cattolico. Tutto ciò che avrebbe potuto assicurare la libertà della parola e di pensiero venne escluso con molta accortezza… e come se tutto ciò non fosse bastato, questo Sinodo compì la più scandalosa violazione dell’antico detto ecclesiastico: «quod semper, quod ubique, quod ab omnibus» cioè: «È infatti cattolico quello che sempre, da per tutto e da tutti è stato creduto»[144]. In una parola il più evidente e disgustoso uso della presunta infallibilità papale è stato necessario prima ancora che l’infallibilità stessa venisse proclamata quale dogma.
Per di più si aggiunse questo: «che il Sinodo non venne convocato né radunato legalmente; che i Vescovi, alti dignitari e altolocati italiani, formavano una enorme e dominante cricca quasi monopolistica; in modo che i membri di esso furono intimiditi dalla più scandalosa propaganda, e che tutto il meccanismo del potere papale che in quel momento esercitava il Papa di Roma contribuì ad intimidire e ad impedire ogni libera espressione. Ognuno, quindi, ne può dedurre chiaramente quale specie di libertà di parola (norma inviolabile ad ogni Sinodo) si avesse nel Sinodo del Vaticano»[145].
Durante tutto questo periodo di tanta violenta mia crisi spirituale, avevo quasi abbandonato i miei studi. In tutte quelle ore che il regolamento del mio Ordine mi concedeva libere, approfittavo della solitudine e compunzione della mia cella per aumentare le mie cognizioni e approfondire una tanto ampia materia. Mesi interi studiai la sintesi e l’organizzazione della Chiesa dei primi secoli da fonti Bibliche, Apostoliche e Patristiche. Ma questa fatica non si sviluppava completamente di nascosto: il mio aspetto esteriore sembrava fortemente influenzato dalla mia grande inquietudine, che già aveva assorbito tutto il mio interessamento. Non esitavo a cercare fuori dal monastero i libri e le persone che avrebbero potuto contribuire in qualche modo ad offrirmi nuovi lumi per il mio problema. Più tardi osavo già rivelare in parte le mie condizioni benché con la più grande attenzione e prudenza, accennandole confidenzialmente a diversi dotti ecclesiastici, amichevolmente legati a me. In tal modo ebbi consigli, pareri ed opinioni sul mio caso, sempre di grande importanza per me. Intanto, trovavo i più dei miei confidenti, più fanatici di quanto non avessi supposto. Per quanto riconoscevano con me l’assurdo dell’intera dottrina papista si aggrappavano disperatamente all’idea, che «la sottomissione dovuta al Papa esige un cieco consenso della mente»[146] e quell’altro detto di Ignazio Loiola, fondatore dell’Ordine dei Gesuiti secondo cui «per avere in tutte le cose la verità, per non deludersi in nulla, bisogna avere sempre come principio fermo, che ciò che vediamo come bianco, è in realtà nero, se tale lo determina la gerarchia della Chiesa»[147].
Conformemente a tale fanatica mentalità dinanzi alla quale ogni logica obiezione restava inefficace, un ieromonaco di quest’Ordine per l’amicizia che ci legava mi confidò: «Ciò che tu dici è indubbiamente chiaro e logico da ogni punto di vista e non posso fare a meno di riconoscerlo. Ma noi Gesuiti, oltre alle tre promesse, ne abbiamo anche una quarta speciale, più sostanziale di quelle dell’ubbidienza, della castità e della povertà. È la promessa della sottomissione al Papa[148]. Perciò sono costretto a preferire di gettarmi col Papa nell’eterna condanna, anziché salvarmi con tutte queste tue verità dell’assoluta certezza».
TU SEI PIETRO…
I più obiettivi tra i miei amici mi consigliavano di studiare le fonti bibliche sul papismo e cioè i passi evangelici che questo cita per la dimostrazione e la difesa del cosiddetto «Primato di Pietro»[149]. Consideravo giusto il consiglio ed era molto di mio gusto, perché mi offriva una nuova occasione di esaminare il mio caso sulla base della S. Scrittura. Come è naturale scelsi come argomento delle mie ricerche la più importante delle pericopi evangeliche nel 16° Capitolo del Vangelo secondo Matteo, sul quale si costruì la dottrina circa il detto del «Primato»: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa»[150] *. Per il romano-cattolicesimo, questa parola del Signore rivolta a Simon Pietro, costituiscono la divina istituzione della pretesa giurisdizione amministrativa e giuridica di questo Apostolo[151]. Il Gesuita Bernardino Llorca scrive: «Come ricompensa della sua meravigliosa confessione circa la divinità di Gesù Cristo, il Signore annunziò a Pietro che lui, Pietro sarebbe la pietra angolare, cioè il Capo e la suprema Autorità dell’edificio della Sua Chiesa»[152]. Questa metafora (Pietro-Pietra) la quale fu applicata all’Apostolo e la quale indica che egli è il fondamento della Chiesa, dimostra anche chiaramente che egli viene stabilito massimo Capo di questa. Il senso della metafora è che Pietro dev’essere per la Chiesa ciò che è il fondamento per l’edificio. E come in ogni edificio il fondamento è precisamente ciò che consolida e dà vera unione all’insieme di esso, così anche nella Chiesa è lui, il Pietro, che da la stabilità e la vera unione ad essa[153].
Concordemente a tale interpretazione del citato passo evangelico, la Chiesa Romana insegna che S. Pietro, presunto primo Papa, «è il fondamento e la pietra angolare della Chiesa, il di lei Principe e Capo, e l’infallibile dittatore della terra»[154]. E difatti, ciò costituisce dottrina obbligatoria ed «è evidente che secondo la volontà e l’Ordine di Dio la Chiesa si regge sul beato Apostolo Pietro come precisamente ogni edificio si regge sulle sue fondamenta»[155]. Intanto questa tanto errata dottrina pretende che essa si accordi, secondo il Sinodo del Vaticano, «con il chiarissimo ed evidentissimo senso della S. Scrittura come è stato inteso sempre dalla Chiesa Universale»[156]. Secondo il mio giudizio però «il chiaro e molto evidente senso della S. Scrittura come è stato inteso sempre dalla Chiesa Universale era precisamente del tutto il contrario. Poche cose, infatti esistono nella S. Scrittura così chiare ed evidenti quanto quello che precisa che nessuno può porre altro fondamento che quello che è stato posto, il quale è Gesù Cristo»[157]. «Gesù Cristo è il solo fondamento della Chiesa», dice S. Attanasio[158]. Il Signore è l’unico fondamento, di cui l’Apostolo Paolo è orgoglioso perché l’aveva messo, quando insieme con lo stesso S. Pietro istituì la Chiesa di Roma[159] ** perché «solo il Signore Gesù Cristo è il fondamento di tutte le parti della Sua Chiesa»[160]; «ogni qual volta nelle Sacre Scritture si parla di un fondamento – dice S. Gregorio il Grande – non si accenna a nessun altro che al Signore»[161]. Sembra impossibile che uno possa osare di negare che Gesù Cristo è la pietra e il fondamento della Chiesa, se leggerà sia pure una sola volta, i libri canonici del Vecchio[162] e Nuovo Testamento[163] ***.
Le parole del Signore «Tu sei Pietro e su questa Pietra edificherò la mia Chiesa» riportate dall’Evangelo di Matteo, non sono riferite da nessun altro Evangelista. Non si ha il minimo cenno di esse né in Giovanni nonostante che questi fa testimone oculare della confessione di Pietro, né in Luca e neppure in Marco, il quale, anzi, è stato discepolo, compagno, interprete dello stesso Pietro e scrive il suo Evangelo secondo l’insegnamento e lo spirito di questo Apostolo. Tutte queste cose precisamente non ci presentano gli Evangelisti come seguaci e sostenitori del primato papale dato che dimenticarono di notare nelle loro Sacre Opere ciò che, secondo la dottrina papista costituisce «il più importante elemento del Cristianesimo[164], la sostanza e il totale di esso»[165]. O sarebbe più retto attribuire la responsabilità di tale ingiustificata omissione allo stesso Spirito Santo, sotto la guida del quale «sospinti parlarono»[166].
Nei diretti discepoli degli Apostoli, nella seconda generazione cristiana, non troviamo ugualmente traccia di una allusione circa il passo di cui si tratta. Difatti nelle Opere dei Padri Apostolici le quali comprendono 412 citazioni delle S. Scritture, manca completamente qualunque cenno relativo alla confessione di Pietro, riportata solo da Matteo. Lo stesso precisamente succede anche con gli altri passi evangelici che vanno citati a favore del primato papista. Né nella «Didachè (= Dottrina) dei dodici Apostoli», né in Clemente, né in Ignazio, né in Policarpo, né in Barnaba, né nell’epistola a Diognito, né nei frammenti di Papia, ancora meno nel Pastore di Erma, dove solo si fa menzione circa la organizzazione e costituzione della Chiesa, è possibile trovare la minima traccia circa il passo famoso encomiato dai papisti «Tu sei Pietro…». I due primi secoli, quindi, si presentano indiscutibilmente ignari di quello elemento «nella base del quale si regge completamente il cristianesimo»[167].
Questa importante omissione è maggiormente sentita nel Pastore di Erma il quale, Erma, era precisamente fratello di Pio Vescovo di Roma; inoltre sappiamo dal canone del Muratori che Erma scrisse quest’opera durante il Vescovato di suo fratello Pio. Ivi Erma descrive i posti degli Apostoli, Vescovi, confessori e diaconi[168], priori, dignitari[169], di quelli che presiedevano nella Chiesa protopresbiteri[170]. Ma nel Pastore, quandunque sia strapieno di immagini e simbolismi circa l’organizzazione e la gerarchia della Chiesa, non incontriamo in nessun punto una testimonianza circa il singolare posto di Vescovo, quale Capo generale di tutto il Cristianesimo. Importantissimo riesce, quindi, il fatto che il fratello stesso del Vescovo di Erma, si presenti ignorando del tutto le cose che riguardano il primato papista!
Il primo cenno del passo evangelico circa la famosa confessione di Pietro non si presenta fino alla seconda metà del 2° secolo; quando verso l’anno 160 fu scritto il dialogo al Giudeo Trifone da Giustino Martire. Lo stile semplice e indifferente con cui Giustino narra la confessione dell’Apostolo, è chiaro. Egli dice: «Gesù ad uno dei suoi discepoli che si chiamava Simone il quale per rivelazione divina, Lo dichiarò quale Figlio di Dio, gl’impose il nome di Pietro»[171]. Verso la fine dello stesso secolo appare per la prima volta nella Grammatologia Ecclesiastica, una citazione, anche se non tanto fedele, del predetto passo. Il testo, che contiene tale citazione, appartiene all’Evangelo «Diatessaron» del Siriaco clerico Tatiano. Questa opera è di tale importanza, che nella Chiesa Siriaca sostituì completamente i Vangeli canonici, almeno fino alla metà del IV secolo. La citazione è la seguente: «Beato sei Simone. E le porte dell’Ades non ti vinceranno»[172]. Dal senso dell’espressione orientale «le porte» (pyle) possiamo solo supporre la vittoria di Pietro sulla morte[173], secondo quel medesimo senso che il Signore Risorto utilizzò, parlando di Giovanni «Se voglio che rimanga finché io venga?»[174].
Da Giustino dobbiamo passare al secolo d’oro della Chiesa, per trovare altre citazioni del nostro passo. In principio la prima cosa che notarono i SS. Padri è che il Signore soprannominò il suo Apostolo «Pietro» nel genere maschile, mentre disse che avrebbe edificato la sua Chiesa «Sulla Pietra» adoperando il genere femminile, la cui distinzione è chiara ed esclude così completamente l’identificazione di «Pietro» con la «pietra». Tale distinzione guidò i Padri e gli altri scrittori ecclesiastici, nel credere che la «pietra» sulla quale venne edificata la Chiesa, non era la personalità di S. Pietro, perché in tal caso il Signore avrebbe adoperato l’espressione «su questo Pietro»[175].
Conseguentemente la maggioranza di questi scrittori inclinava per la interpretazione della Pietra, come confessione di fede al Figlio di Dio, interpretazione questa che da tempo già aveva scalfito il S. Apostolo Giuda (non l’Iscariota) consigliando edificare «Noi medesimi sulla santissima nostra fede»[176]. Altri intesero il significato della Pietra come lo stesso Cristo, il preannunciato dai Profeti l’aspettata Pietra d’Israele[177] cosa che lo stesso Signore attribuisce a Sé[178]. In fine, altri, pochissimi scrittori, come Tertulliano, nonostante che determinate volte avessero identificato la Pietra con l’Apostolo, pure attribuiscono ad essa solo un’interpretazione metaforica, un significato soltanto spirituale, senza ritenere questa come un particolare privilegio dell’Apostolo in paragone con gli altri e molto meno ereditario[179].
Il grande Agostino scrive nelle sue Retractationes che leggendo questo passo evangelico superficialmente ebbe la impressione che la Pietra si potesse identificare con l’Apostolo; ma più tardi, studiando con attenzione comprese che la retta interpretazione è, che la Pietra sulla quale la Chiesa edificata non è che Colui il quale l’Apostolo Pietro confessò come Figlio di Dio[180]. S. Agostino insegnava sempre questo insegnamento come risulta da innumerevoli passi delle sue Opere. Egli espone i motivi di tale interpretazione e così si esprime: «Siccome la parola “Pietra” è prototipo: perciò il Pietro prende il nome dalla Pietra, e non la Pietra dal Pietro; come anche noi stessi cristiani assumiamo questo nome da Cristo e non Cristo dai cristiani. Tu – dice Cristo – sei Pietro su questa Pietra che hai confessato, dicendo “Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio”, edificherò la mia Chiesa, cioè in me stesso il Figlio di Dio vivente»[181]. Lo stesso concetto ripete S. Agostino, quasi con le stesse parole nella sua la Omelia sulla festa dei due Πρωτοκορυφαίοι (Protocorifei) Apostoli Pietro e Paolo[182]. Lo stesso fa anche nella sua 5a Omelia sulla Pentecoste, in cui dice ancora più chiaramente: «Su questa Pietra edificherò la mia Chiesa; non sopra Pietro (Petrum) il quale sei tu, ma sulla Pietra (Petram), la quale tu hai confessato»[183]. Ed aggiunge nel Tractatus 124° sull’Evangelo di Giovanni: «Su questa Pietra, la quale hai confessato, io edificherò la mia Chiesa; e ciò perché la Pietra era lo stesso Cristo»[184].
Questo S. Padre ironizzava alcuni eterodossi, i quali, come oggi i papisti, identificavano l’Apostolo Pietro con la Pietra: quanto interpretava i passi circa la rinnegazione di Pietro domandando loro mordacemente con il tono bruciante che lo caratterizza: «Dov’è adesso la vostra Pietra? Dov’è la solidità di essa?»[185]. Lo stesso Cristo era la Pietra, mentre Simone non fu che Pietro… di pietra. La vera Pietra fu risuscitata per rinforzare Pietro, il quale vacillò abbandonando la Pietra[186]. Su questa divina Pietra, la quale è il Suo vero Figlio: Iddio pose «i fondamenti relativi» cioè i primi materiali umani della Chiesa. Questi «fondamenti relativi» sono tutti insieme gli Apostoli, fra i quali Simone Pietro non occupa nessuno speciale posto di autorità o di giurisdizione. Ciò insegnano S. Paolo e S. Giovanni Evangelista, il quale in una delle sue meravigliose profetiche visioni ebbe l’occasione di vedere, che l’edificio spirituale della Chiesa edificato «sulla Pietra», aveva dodici pietre di fondamento, e su queste stavano i dodici nomi dei dodici Apostoli dell’Agnello[187].
Perciò S. Ignazio Antiocheno scrive ai Tralliani, che «fuori di loro (degli Apostoli), non esiste neanche il nome della Chiesa»[188]; e S. Cipriano lo riferisce anch’egli a modo suo, insegnando che la Chiesa si è basata «Super episcopos», cioè sugli Apostoli e sui loro successori[189] i quali sono, stati edificati su quella inamovibile roccia (pietra) di Nostro Signore Gesù Cristo[190]. L’ammettere che la Chiesa è edificata solo sull’Apostolo Pietro escludendo tutti gli altri, come pretende il Papismo[191], equivale a paragonare il Salvatore con «quello stolto uomo» della parabola «che edificò la sua casa sulla rena», la quale casa «cadde, e la sua rovina fu grande»[192]. «Tu dici che la Chiesa si eresse su Pietro – scrive S. Girolamo all’eretico Iovinianus – ma la verità è che si eresse su tutti gli Apostoli; e la potenza della Chiesa si stabilì su tutti loro»[193].
Lo studio degli insegnamenti dei Padri relativo a questo passo della S. Scrittura, è stato molto vantaggioso per me; perché, come scrive S. Vincenzo: «è necessario, per evitare difficoltà ed i labirinti dell’errore, che il modo della spiegazione della S. Scrittura sia consono con la nota regola secondo il senso della tradizione ecclesiastica»[194].
Dopo queste indagini sui Padri, non avevo più alcun dubbio riguardo al fatto che l’insegnamento cattolico-romano sul primato papista dell’Apostolo Pietro, era del tutto contrario al «chiaro ed evidente senso» della S. Scrittura e gli insegnamenti degli Apostoli ed alle interpretazioni dei SS. Padri e in genere al costante ed ecumenico insegnamento, secondo la tradizione della chiesa di Cristo[195].
IL PRINCIPIO DELLA DISPUTA
Quando le mie idee cominciarono a divenire conosciute, iniziò anche a circolare su di me la vaga diceria che fossi un monaco fortemente sospetto d’eresia. «Se fossimo vissuti, invece di adesso, pochi secoli fa – mi scrisse in modo molto severo un rispettabile Vescovo, ora Cardinale – le teorie che la Rev. Vostra sta sviluppando avrebbero costituito motivo più che bastante per condurla al rogo della Santa Inquisizione».
Non tardò anche a divulgarsi la diceria che i miei superiori ecclesiastici, avevano deciso per il caso di interporsi onde fosse impedita la mia ordinazione a Diacono[196]. Giunsero ad invocare il voto dell’ubbidienza e della disciplina monastica, per costringermi ad abbandonare coscientemente le mie convinzioni. Secondo loro dovevo ubbidire ciecamente e smettere d’occuparmi di altro in quanto il diritto dell’esame delle questioni di fede, l’aveva soltanto l’alta Gerarchia della Chiesa. Se credevo nella Chiesa Apostolica, mi dicevano, dovevo seguire, secondo loro, in tutti i legali successori degli Apostoli. Ma, la grazia del Signore permise che rimanessi fermo nelle mie convinzioni tenendo dinanzi a me i detti di S. Ireneo riguardo agli eterodossi. «Dal solo e semplice fatto che hanno l’Apostolica successione, non possono avere la pretesa di essere loro seguaci: bisogna che seguiamo i buoni successori degli Apostoli, ma anche bisogna dividerci dai cattivi»[197].
Difatti, la Chiesa romana può avere la formale successione apostolica dalla successiva imposizione delle mani dei Vescovi; ma non la vera successione della fede e dell’insegnamento Apostolico, quella che Papia encomiava alla stessa Cristianità di Roma nel secondo secolo dicendo: «In ogni successione ed in ogni luogo si osserva ciò che esigono le leggi, i Profeti ed il Signore»[198].
Nulla poteva ormai farmi cambiare idea. Perciò quando un prete, il quale d’allora non cessò di parlarmi con cattiveria, mi chiamò pubblicamente «ingrato figlio della Chiesa Cattolica», mi permisi di esprimere i miei dubbi se l’appellativo di «cattolico» s’accordasse realmente al papismo, che caratterizzai come «empia innovazione»[199], mentre «la vera fede cattolica è quella dell’antico ed universale Cristianesimo»[200]. E di fatti io stesso mi credevo più cattolico della stessa mia Chiesa: «È veramente cattolico colui il quale ama la verità di Dio, la Chiesa il Corpo di Cristo… colui il quale non preferisce nulla più della divina religione; e non pone prima di essa l’autorità d’un uomo, ma soltanto l’antica ed unica fede. E disprezzando questa autorità e rimanendo solidamente e fermamente collegato alla vera fede, è risoluto a non credere null’altro fuori di quello che sa che prescrisse la Chiesa fin dai primi inizi del suo cammino»[201].
Quando mi domandavano, se io, l’ultimo e il più umile dei monaci di S. Francesco, osavo giudicare e chiamare errata l’intera mia Chiesa, con tutti i Papi, i Sinodi e i Teologi di essa mi bastava rispondere semplicemente, ripetendo le parole di Tertulliano: «Ogni dottrina che si oppone alla verità insegnata dalla Chiesa, dagli Apostoli, da Cristo e da Dio dev’essere giudicata come errata»[202].
«ESCI DA ESSA, O POPOLO MIO…»
Ciò nonostante, probabilmente non avrei fatto il minimo passo per abbandonare la mia Chiesa, se fossi stato sicuro che malgrado la sua mostruosa deviazione dogmatica, mi sarebbe stato perlomeno possibile rifugiarmi esclusivamente nella vita spirituale, che il mio Ordine e il mio Convento mi offri vano lasciando alla Gerarchia la responsabilità riguardo all’eresia e l’obbligo di discernerla e di correggerla. Ma in una religione alla quale il semplice capriccio di un Papa che si crede infallibile, può introdurre tanti nuovi dogmi, decreti e insegnamenti errati quanti ne vuole, riguardo alla fede, al culto ed ai Sacramenti, resterebbero forse sicuri gli interessi della mia anima e la integrità della mia vita spirituale?
«Costituisce una grande tentazione – scriveva San Vincenzo di Lerino già nel 5° secolo – il fatto che costui, il quale tu consideri come profeta, come interprete dei profeti, come maestro e sostegno della verità che segui col più grande rispetto e amore, improvvisamente comincia ad introdurre clandestinamente pericolosi errori, che non puoi scoprire facilmente, abbagliato dal preconcetto dell’anteriore suo insegnamento e dalla cieca ubbidienza a lui»[203].
Di più ancora; era a me facile constatare, infatti, che la vita spirituale del Cattolicesimo romano presenta gravi ed evidenti prove d’influenza della sua deviazione Teologica. Dogmi, come quello del Purgatorio, usanze come quella dell’amministrazione della divina Comunione da uno e solo elemento, esagerazioni come quella del culto esagerato alla Vergine, costituiscono chiari sintomi di degenerazione teologica, evidenti agli occhi di quelli che vogliono vederli senza parzialità e senza preconcetti. Infatti, avendo loro di già profanato la iniziale purezza della fede evangelica ed apostolica con la dottrina sul papato e con l’eresia dell’infallibilità papale, avendo con tale modo travisata una parte del retto insegnamento sull’uomo deviarono similmente anche in altri punti. E come in tutti gli altri casi di eterodossia, che vengono ricordati dalla storia ecclesiastica: «in seguito continuano l’alterazione anche in altri insegnamenti, in principio per abitudine, e in seguito come se si fosse acquistato un certo diritto per continuare l’alterare. E così essendo snaturate in fine tutte le parti del retto-insegnamento, alterano, il tutto con lo stesso modo»[204].
Non è per nulla strano se personalità distinte, dal punto di vista spirituale, nella Chiesa romana, cominciavano a dare il segnale d’allarme, sebbene già tardi, con dichiarazioni pubbliche tanto espressive come la seguente: «Chi sa, se i “piccoli mezzi di salvezza” che ci assediano ci guidarono nel dimenticare l’unico Salvatore: Gesù!…»[205]. «Oggi la nostra pietà si presenta come un albero con tanti rami intrecciati e con tanto fitto fogliame, dove le farfalle svolazzano col pericolo di non sapere più dove si trova il tronco il quale contiene il tutto e dove si trovano le radici che abbracciano la terra»[206]. Aggiungiamo anche questa più opprimente frase: «Abbiamo decorato e supercolmato il quadro in tal modo, che l’immagine di Colui che è l’unico necessario è scomparso sotto gli ornamenti»[207].
La riparazione è semplice e possibile ed i più sinceri e coraggiosi di questa Chiesa lo riconoscono. Sfortunatamente però, l’occasione che venga applicata opportunamente è già molto dietro: «Non ci cibiamo d’altro cristianesimo che non sia quello dei tempi Apostolici – esclamava un sapiente Reverendo cattolico romano, Mons. Le Camus –. Non dobbiamo permettere a coloro che ci propongono altre differenti idee di turbare la nostra vita religiosa, di sottrarci alla nostra buona volontà e di diminuire le nostre energie»[208].
Le seguenti parole sono veramente una eco dei rimproveri di S. Policarpo ai Pilippesi: «Si abbandonino le vanità degli uomini e i falsi insegnamenti e si torni all’insegnamento che ci fu dato in principio»[209]. E aggiungiamo anche le osservazioni di S. Cipriano a Cecilio: «Quando la verità manca dall’usanza e dalla Tradizione queste non sono altro che l’antichità dell’errore. Esiste un mezzo molto sicuro per il quale le anime pietose possono distinguere ciò che è vero da ciò che non è vero: basta risalire al primo inizio del divino insegnamento, là dove ha termine l’errore umano. Si ritorni al primiero insegnamento, che ci fu dato da N. S. G. Cristo, come fino all’inizio Evangelico, fino alla Tradizione Apostolica da cui scaturisce la ragione dei nostri pensieri e delle nostre opere»[210].
Aggiungiamo ancora le parole del grande Profeta: «Fermatevi sulle vie, e guardate, e domandate quali siano i sentieri antichi del Signore, e guardate dove sia la buona strada e incamminatevi per essa; e voi, troverete la purificazione delle vostre anime»[211].
Ero, quindi, persuaso che anche la stessa vita spirituale della Chiesa romana potesse riuscirmi seriamente pericolosa; perché «nella Chiesa di Dio, costituisce grande tentazione per i fedeli, l’errore di coloro, i quali li conducono, e maggiore e più grave è la tentazione, quando quelli che insegnano l’errore occupano gradi molto elevati»[212]. Colui che affida la sua anima ad una Chiesa, che è diretta e governata da eterodossi, corre il pericolo che gli accada ciò che accadde ai fedeli, che si trovavano sotto l’autorità pastorale di Origene, per il quale i Padri dicono: «Infatti, non semplice tentazione, ma molto grave fu la cattiva influenza di questo maestro della Chiesa a lui affidata…, che nulla sospettava, nulla temeva da lui e così fu da esso condotta, a poco a poco ed incoscientemente, dalla originale religione ad una empia innovazione»[213].
Non volevo più restare nel seno di un falso cristianesimo, che sfruttava il Vangelo, per servire i fini imperialistici del cesaropapismo. Non volevo essere di quelli, che «non possono avere il vero Dio quale Padre in quanto disprezzarono la vera Chiesa quale Madre»[214], perché come dice S. Cipriano, quanti deviarono dalla vera dottrina e dalla prima unione ecclesiastica, «non hanno la legge di Dio, non hanno la fede del Padre e del Figlio, non hanno la vita e la salvezza»[215]. Avevo la convinzione che nulla più mi restava, che prendere la ultima decisione e fare il passo decisivo, ponendo fine alla insopportabile mia condizione nel seno del papismo, condizione la quale era già scossa da ogni punto di vista.
Indubbiamente la grazia del Signore mi ha contenuto in quei giorni in cui avrei dovuto prendere una così grave decisione, in modo che io mi domando ancora stupito, come mai ho potuto resistere alle tante lacrime dei miei cari fratelli del monastero ed ai tanti rimproveri e alle tante minacce dei miei superiori. Mi chiamarono ingrato e apostata della Chiesa dei miei avi e apostata della Tradizione religiosa della mia Patria. Mi limitavo a rispondere ai pochi che volevano ascoltarmi ancora, con queste parole di S. Girolamo nelle quali trovavo tanta forza e consolazione in ogni momento: «Non siamo obbligati a seguire gli errori dei nostri antenati e dei nostri maggiori ma i dettami della S. Scrittura e gli ordini di Dio»[216]. Per quanto riguarda il supposto «tradimento» alla Tradizione della Patria ero tranquillo. «Tutto ciò che si contrappone alla verità, anche se si tratta di una Tradizione o di una antica usanza, è eresia»[217].
E quando, dopo mesi, scrissi il primo capitolo del mio studio «Storia dell’Ortodossia Spagnuola», nel quale scientificamente mi occupavo della fondazione delle prime Chiese Iberiche dall’Apostolo Paolo[218] ho constatato che ero precisamente l’unico che non aveva tradito ancora la vera e antica Tradizione Spagnuola, dato che la Chiesa della mia Patria era infatti Ortodossa durante i primi quattro secoli dalla sua fondazione e non papista e non dominata dal Vaticano come oggi[219].
Abbandonai infine il monastero e poco dopo proclamavo pubblicamente la mia decisione, di abbandonare la Chiesa Romana. Altri monaci e Sacerdoti, avevano dimostrato fin allora il proposito di seguirmi, ma all’ultimo momento nessuno di loro si mostrò premuroso di sacrificare tanto radicalmente le sue condizioni nella Chiesa, il suo onore e la sua buona riputazione della società[220]. Prima di abbandonare il Convento ebbi la buona idea di chiedere ai superiori di rilasciarmi un certificato che attestasse che l’abbandono del Convento da parte mia avveniva dietro mia spontanea volontà e che durante tutta la mia vita monastica, non avevo dato il minimo motivo ad osservazioni. Tale documento mi venne rilasciato in seguito e fu «la deplorevole particolarità» che impedì posteriormente i Greci Uniti in Ellade di costruire qualche calunnia sulle cause della mia «Apostasia».
In tal modo abbandonai la Chiesa di Roma, il cui Capo dimenticando che il regno del Figlio di Dio non è di questo mondo[221] e che «colui il quale è stato chiamato alla dignità Episcopale, non lo è stato per investirsi di un’autorità umana, ma per servire intera la Chiesa»[222], imitò colui che «nella sua superbia desiderando essere come Dio, perdette la vera felicità per guadagnare una falsa gloria»[223]; imitò colui che «sedette al Tempio di Dio, per credersi Dio[224]». «Salirò fino ai cieli ed innalzerò il mio trono al disopra delle stelle di Dio: siederò sulla montagna, ove seggono gli Dei… e somiglierò all’Altissimo»[225].
Giustamente Bernardo di Chiaravalle, una delle maggiori figure mistiche d’Occidente, scriveva a Papa Eugenio: «nessun veleno maggiore per te, nessuna spada più pericolosa, che la passione del dominio»[226]. Guidati da questa sfrenata passione i Papi obbligarono la loro Chiesa a «fornicare con le forze del mondo, facendone bottino di mercanti»[227]. In tal modo trasgredirono i comandamenti di Dio, insegnando dottrine che sono precetti d’uomini[228] e «minando la verità, per costruire su questa i loro errori»[229] divennero loro stessi bugiardi[230], e seguaci del padre dei bugiardi e della menzogna[231]. E ciò, come del resto è accaduto a tutte le altre eresie di tutte le epoche, «perché introdussero nel divino dogma superstizioni umane, perché violarono i precetti degli antichi, disprezzando gli insegnamenti dei SS. Padri, annullando la sapienza degli antenati, attratti dalla sfrenata passione di una empia e vana, innovazione e perché non volevano contenersi nei limiti della santa e incorruttibile antichità»[232]. Ecco, dove è andato a finire il Papa, come quello sventurato Origene «coll’avere sprezzato la semplicità della religione cristiana e coll’avere preteso che egli sa più d’ogni altro, disprezzando le Tradizioni della Chiesa e gli insegnamenti degli antichi»[233].
In un tale stato di cose, non potevo fare altro che ciò che ho fatto, ubbidendo alla voce della mia coscienza, la quale ripeteva il comandamento dello stesso Dio al popolo eletto: «Esci da essa, o popolo mio: affinché non sii partecipe dei suoi peccati e non abbi parte alle sue piaghe»[234].
VERSO LA LUCE
Quando la notizia della mia disapprovazione del papismo cominciò a divulgarsi in larghi circoli ecclesiastici e ad essere accettata con entusiasmo dai Protestanti Spagnoli e Francesi, la mia posizione diveniva ancora più delicata. Nella mia quotidiana corrispondenza ricevevo molte lettere anonime di minacce e di ingiurie: mi si imputava che io cercavo di creare una pubblica opinione antipapista tra i fedeli e che volevo condurre all’apostasia un determinato numero di sacerdoti cattolici-romani, i quali, venivano considerati «deboli dogmaticamente» perché avevano la debolezza di palesare pubblicamente un interesse ed una simpatia per il mio caso. Tutte queste cose mi condussero alla decisione di lasciare Barcellona per trasferirmi a Madrid, ove accettai la ospitalità degli Anglicani e per mezzo loro iniziai relazioni col Consiglio Ecumenico delle Chiese.
Intanto, nemmeno là riuscii a rimanere inosservato. E, dopo ogni mia predica, nei diversi Tempi della Chiesa Anglicana, un grande numero di ascoltatori erano desiderosi di conoscermi personalmente e discutere con me, confidenzialmente, su diverse questioni di coscienza. Il maggior numero dei miei interlocutori mi poneva la domanda circa la coesistenza di diverse Chiese Cristiane le quali si scomunicavano fra loro perché ognuna di esse sostiene che è l’unica, autentica e genuina rappresentante e, quindi, erede della Chiesa dei primi secoli.
Così, senza che io lo avessi cercato, cominciò a formarsi intorno a me un circolo sempre maggiore, di cui la maggioranza dei componenti non erano papisti. Ciò mi esponeva pericolosamente a venire alla rottura con le autorità, specialmente quando fra le visite confidenziali che ricevevo, cominciarono ad annoverarsi anche alcuni Sacerdoti cattolici-romani da molti conosciuti e disprezzati quali «ribelli contro la loro chiesa e quali seguaci di una idea liberale riguardo il Primato e la Infallibilità del Pontefice di Roma».
L’odio fanatico che nutrivano da allora in poi per me determinati cattolici-romani più papisti che cristiani, lo integrarono, infine, in quel giorno in cui risposi pubblicamente per esteso ad uno studio ecclesiologico, che mi era stato inviato dall’Azione Cattolica come «ultimo passo» per farmi desistere dalla «mia eretica ostinazione». Lo studio in parola, di carattere apologetico, portava il titolo espressivo: «Il Papa Vicario di N. S. Gesù Cristo sulla terra», ed il suo riassunto era presso a poco il seguente: «In virtù dell’infallibilità di Sua Santità i cattolici-romani sono, oggi, i soli cristiani che possano essere sicuri di ciò che credono». Dalle colonne della Rassegna portoghese «Critica dei Libri», risposi loro senza alcuna riserva: «Più obiettivo è, per virtù precisamente di tale infallibilità, il fatto che oggi siete in realtà i soli cristiani… i quali non possono essere sicuri… di ciò che Sua Santità li obbligherà a credere domani». Il mio commento terminava con queste parole: «ancora un po’ di più, e riuscirete a mutare N. S. Gesù Cristo in Vicario del Papa nei cieli».
Poco tempo dopo posi termine alla nostra disputa con la pubblicazione a Buenos Aires di un triplice studio, che esauriva completamente il tema nel modo più obiettivo[235]. Questo studio consiste in una raccolta di tutti i passi delle opere dei SS. Padri dei primi quattro secoli, che alludono direttamente o indirettamente ai così detti «Testi del Primato» che, come è noto, sono: Matt. 16, 16-19; Giovan. 21, 15-17; Luc. 22, 31-32. In tal modo dimostravo che la dottrina papista è assolutamente contraria alla interpretazione che danno i SS. Padri su questi passi del Vangelo, interpretazione che costituisce precisamente l’unica regola della spiegazione della parola di Cristo.
L’INCONTRO CON LA VERITÀ
Durante questo periodo, indipendentemente dai detti avvenimenti, venni per la prima volta in immediato contatto con l’Ortodossia. Prima di procedere alla enumerazione dei fatti devo far notare qui che le mie cognizioni su questa Chiesa erano abbastanza sviluppate fin dal principio della mia odissea. Da una parte, determinate discussioni, che per lungo tempo avevo fatto in temi ecclesiastici con un gruppo di universitari Polacchi ortodossi, i quali erano di passaggio per la mia patria, d’altra parte le notizie pubblicate che ricevevo dal Consiglio Ecumenico relative all’esistenza ed all’azione degli Ortodossi d’Occidente, avevano mosso sinceramente il mio interessamento. Di più, ultimamente, cominciai a ricevere pubblicazioni da Russi, da Greci, da Londra, da Berlino ed alcuni preziosi studi dell’Archimandrita Benediktos Katsanevakis, pubblicati a Napoli, che avevano guadagnato la mia simpatia.
Tutto ciò contribuì, naturalmente, a poco a poco ad estinguere integralmente tutti i miei preconcetti, che, a riguardo dell’Ortodossia vengono fomentati dal Cattolicesimo romano, i cui testi ufficiali di dottrina che vengono insegnati alla gioventù scolastica e universitaria riferiscono che: «Lo scisma d’Oriente, il così detto Ortodossia, non è null’altro che un insieme senza vita, mummificato, fossilizzato e disseccato; piccole chiese locali, senza nessuno dei caratteristici contrassegni distintivi della vera Chiesa di Cristo»[236]. Cioè «un lacrimevole scisma il quale ebbe come Padre il Diavolo e come Madre la superbia del Patriarca Fozio»[237].
Quando, di mia propria iniziativa, cominciai le mie relazioni per corrispondenza con un venerabile membro della Gerarchia Ortodossa in Occidente a cagione della mia propria crisi dovuta a tutte queste generiche informazioni, ero già integralmente capace di ricevere obiettiva cognizione di quanto questo Vescovo mi voleva riferire riguardo alla dottrina Ortodossa. In altre parole ero già in condizione di esaminare senza preconcetti tutte le relative questioni dottrinali riguardanti sia la fondazione che la situazione teologica delle Chiese Orientali.
Durante tali relazioni, non tardai a discernere il parallelismo esistente fra la mia negativa posizione e la dottrina Ecclesiologica dell’Ortodossia dinanzi al papismo. Mentre io combattevo «ciò che non doveva esistere» l’Ortodossia parallelamente, offriva «tutto ciò che deve esistere». Riferii questo parallelismo a quel venerabile prelato, dato i nostri reciproci rapporti convenne meco su tale punto, anche se con qualche riserbo dovuto al fatto della mia permanenza fra Protestanti. Qui devo osservare che i rappresentanti dell’Ortodossia in Occidente non s’interessano per nulla del proselitismo perché il proselitismo tra cristiani è contrario alla loro concezione circa la situazione ecclesiastica in Europa ed alla loro attività strettamente pastorale fra i Greci ed i Russi, la di cui spiritualità è stata loro affidata.
Quando la nostra corrispondenza era ormai molto avanzata e per mezzo di essa le mie relazioni erano estese fino allo stesso Patriarcato Ecumenico, solo allora, fu deciso di consigliarmi lo studio della preziosa opera di Sergio Boulgakoff «L’Ortodossia»[238] e la non meno profonda opera del Metropolita Serafino di Berlino, la quale porta il medesimo titolo[239]. Dal principio della lettura di queste opere, sentii il mio essere identificarsi con lo spirito dei loro autori. Nessun paragrafo vi incontrai da non potere ammettere e abbracciare coscientemente. Tanto in tali opere, quanto in molte altre che cominciai a ricevere dalla Grecia accompagnate da lettere incoraggianti, mi sorprendeva l’evangelica purezza dell’insegnamento Ortodosso, i di cui fedeli sono oggi, indubbiamente, gli unici cristiani del mondo i quali credono quello che credevano anche i cristiani delle catacombe; gli unici e veramente fedeli, i quali hanno ragione di ripetere con legittimo orgoglio la patristica frase: «Crediamo a tutto ciò che ricevemmo dagli Apostoli, a tutto ciò che gli Apostoli ricevettero da Cristo, e a tutto ciò che Cristo ricevette dal Padre». O a queste parole di Tertulliano: «Solo noi siamo in comunione con le Chiese Apostoliche, perché la nostra dottrina è la sola, che non si differenzia dalla dottrina loro. Questa è la testimonianza della nostra verità»[240].
Durante questo periodo scrissi il mio studio «Concetto della Chiesa secondo i Padri dell’Occidente» e lo studio «Dio nostro, Dio vostro, e il Dio»[241], la cui pubblicazione, nel Sud America, fui costretto di sospendere, per non offrire un’arma tanto maneggevole quanto pericolosa alla propaganda protestante.
Venni allora consigliato dal lato Ortodosso, di lasciare il mio atteggiamento semplicemente negativo dinanzi al papismo, atteggiamento al quale mi ero attaccato, per dedicarmi ad un lavoro di concentrazione e di autoesame, per il rinvenimento del mio positivo e concreto mio personale «Credo», per mezzo del quale avrebbero potuto esaminare la mia esatta condizione teologica e misurare le distanze che questa potesse avere dall’anglicanesimo da una parte e dall’Ortodossia dall’altra. Tale fatica non era né facile né breve in quanto mi obbligava ad un esame molto largo, trattandosi della fede per la quale indubbiamente non ero ancora teologicamente preparato. Perché, non si trattava per me soltanto di cancellare i dogmi relativi al Primato Papale e le sue prerogative e rimanere con il resto della dottrina romana, ma occorreva un profondo lavoro di analisi e chiarificazione, tra le verità fondamentali del Cristianesimo e le barriere dogmatiche papali di ogni ordine e specie, sulle quali sono stati solidamente basati per secoli gl’interessi politico-ecclesiastici del Vaticano, per la realizzazione delle sue mire imperialistiche sulla Chiesa. E ciò perché non volevo ricadere nel medesimo errore degli Antichi Cattolici i quali scandalizzandosi della proclamazione del dogma dell’infallibilità papale nel Sinodo del Vaticano, abbandonarono il Papa e restarono però con la medesima teologia romana, contessuta con tanti altri artefatti dogmi, preconcetti e superstizioni.
Innanzi all’enorme difficoltà di questo lavoro preferii esprimere il mio atteggiamento con parole generiche e positive, quanto più mi era possibile, esprimendomi quindi così: «Credo a tutto ciò che contengono i libri canonici del Vecchio e Nuovo Testamento ed a tutti gli insegnamenti che scaturiscono direttamente dal loro contenuto conformemente all’interpretazione di esso fatta secondo il tradizionale insegnamento ecclesiastico, cioè secondo l’insegnamento dei Concili Ecumenici e dell’unanime consenso dei Santi Padri».
Da quel momento, cominciai a notare che la simpatia dei Protestanti verso di me diminuiva rapidamente, fatta eccezione degli Anglicani, la comprensione e l’incoraggiamento morale dei quali mi accompagnavano durante tutto questo difficile periodo. E solamente allora l’interesse degli Ortodossi, anche se molto tardi, cominciava a dileguare il preconcetto verso me e considerarmi come uno «probabile e interessante catecumeno». Le parole di uno scienziato Ortodosso Polacco (al quale, gli Uniti[242], informati della sua influenza, delle sue ricchezze e del suo prestigio, fecero proposte di convertirsi con ogni costo al papismo), le parole dico di lui mi persuasero circa la fede dell’Ortodossia sulle verità sostanziali del primo Cristianesimo. Questo mio amico diceva agli Uniti: «Mi consigliate che devo rinnegare la fede Ortodossa per diventare perfetto cristiano: E bene; la mia fede Ortodossa, è costituita dai seguenti elementi: Gesù Cristo, Vangelo, Sinodi e SS. Padri. Chi o quali di questi elementi devo rinnegare, per diventare, come dite, perfetto cristiano?». E quando, modificando la loro politica, gli proposero di non rinnegare nulla di ciò, ma almeno riconoscere il Papa come infallibile Capo della Chiesa, rispose semplicemente: «Riconoscere il Papa? Ciò sarebbe come rinnegare tutti i sopraccennati elementi!».
Compresi, che difatti, ogni cristiano non Ortodosso, ha la possibilità di sacrificare una parte dell’intera sua dottrina, per giungere ad una più completa purezza della sua fede, mentre il cristiano Ortodosso non ha questa facoltà, perché solo lui resta fermamente alla sostanza del Cristianesimo, la quale costituisce la Verità rivelata, eterna ed immutabile. Un cristiano cattolico-romano per esempio, può rinnegare il Papa, come feci io, o confutare la dottrina sul Purgatorio, o portare obiezioni alle norme del Concilio di Trento senza perciò cessare d’essere cristiano. Con lo stesso modo un Protestante può rinnegare gli insegnamenti dei grandi Riformatori in ciò che riguarda la Divina Grazia e la Predestinazione e rimanere intanto ugualmente cristiano. Solo l’Ortodosso è colui il quale non dispone nella sua fede di altri elementi che di quelle sostanziali e basilari verità del Cristianesimo, direttamente rivelate da Dio per mezzo di Gesù Cristo. La Ortodossia è la sola Chiesa la quale non accettò mai di proporre nulla ai suoi fedeli, tranne quello, che «sempre, dappertutto e da tutti» fu considerato come insegnamento rivelato da Dio[243]. Perciò, l’abbracciare l’Ortodossia non è altro che l’abbracciare la fede del Vangelo nella sua limpidezza primitiva, mentre al contrario il rinnegarla e il ribellarsi ad essa è come rinnegare e distaccarsi interamente dal Cristianesimo.
L’Ortodossia è quell’unica Chiesa, che come fedele custode della fede Evangelica «giammai mutò in essa nulla, né tolse né aggiunse nulla»[244] «non tolse nulla di sostanziale né accumulò degli accessori, né smarrì qualcosa di suo, né rapì nulla di estraneo, sempre fedele e prudente verso ciò che ereditò»[245], perché sa che nella fede, che originariamente le fu affidata una volta per sempre[246], non è permesso il minimo cambiamento neanche da un angelo del cielo[247] e tanto meno da un uomo terreno bugiardo e peccatore!…
L’Ortodossia è la vera sposa di Cristo «gloriosa, senza macchia, e senza ruga o qualcosa di simile, ma santa ed irreprensibile»[248].Questa è la Santa Chiesa di Dio l’unica sua[249], «la veramente Chiesa Universale (= Cattolica) che combatte contro tutte le eresie». Essa può combattere ma non può essere mai vinta. Benché tutte le eresie e gli scismi siano da Essa germogliati, sono tolti da Essa come tralci inutili dal tronco della vite principale, questa però resta ferma alla sua radice, alla sua unione con Dio[250]. Chi la segue, segue Dio; chi ascolta la sua voce, ascolta quella di Dio[251]; e colui il quale le disubbidisce è uno dei Gentili[252].
Persuaso di tutte queste idee non mi sentivo più tanto solo, dinanzi all’onnipotente papismo da una parte, e la sempre più manifesta freddezza dei protestanti dall’altra. Sentivo che esistevano in Oriente e sparsi in tutto il mondo, milioni di miei fratelli cristiani, i costituenti la Chiesa Ortodossa, che, con essi, mi trovavo già in comunione di fede e di dottrina. La calunnia papista della fossilizzazione e del disseccamento teologico dell’Ortodossia, non mi ha per nulla toccato, poiché, avevo compreso, ormai, che questa perseverante costanza dell’Ortodossia nella verità da Essa ereditata, non era immobile, statica, impassibile e quindi pietrificata, ma era una confessione di fede a corrente permanente, quale la corrente di una cascata, che appare sempre la stessa, mentre, le sue acque, alternandosi, sono permanentemente diverse ed in ogni momento producono nuova eco ed armonia.
A poco a poco, anche gli ortodossi cominciarono a considerarmi come persona loro. «Il discutere con questo Spagnolo delle verità dell’Ortodossia non è proselitismo – scriveva un Archimandrita – ma è parlare con lui di un insegnamento, di uno spirito religioso, i quali sono tanto nostri quanto suoi, con la sola differenza che noi li abbiamo ereditati dai nostri anteriori mentre lui è riuscito ad esumarli da una profondità di quindici secoli di storia della nostra Chiesa». Era quindi chiarissimo che il naturale sviluppo delle mie «spirituali inquietudini», così chiamate dal mio confessore, mi aveva guidato inconsciamente nel seno della Madre Chiesa cioè della Chiesa Ortodossa. Di più; durante questo ultimo periodo, ero già, senza che me ne accorgessi, un Ortodosso e nello stesso modo come i discepoli a Emmaus, così, anch’io camminavo percorrendo insieme con la Divina Verità, senza riconoscerla, fino al termine del mio viaggio spirituale.
Quando, arrivato alla piena convinzione di tutte queste cose, compresi che non mi restava null’altro che agire in conseguenza. Scrissi quindi, una lunga esposizione del mio caso e del suo sviluppo al Patriarcato Ecumenico come pure a Sua Eminenza l’Arcivescovo di Atene a mezzo della Direzione della «Diaconia Apostolica» (Αποστολική Διακονία) della Chiesa di Grecia. Allo stesso modo esposi chiaramente la mia risoluzione alle Gerarchie e ad altri membri delle varie Chiese, con le quali ero in relazioni. E sentendomi come colui che possiede già la perla preziosa per la quale vale la pena di sacrificare qualunque cosa che ha[253], pur di custodirla, abbandonai la mia Patria a mi recai in Francia dove venni in pieno contatto con gli Ortodossi miei fratelli appena conosciuti. Preferii, però, di lasciare passare ancora del tempo, prima di entrare regolarmente come membro della Chiesa Ortodossa, avendo ancora intenzione di maturare a poco a poco la mia tanto importante risoluzione.
Infine feci il passo definitivo, chiedendo ufficialmente l’ingresso nella vera Chiesa di Cristo. Tutti concordemente decisero che l’avvenimento avesse luogo nella stessa Grecia, terra per eccellenza della Ortodossia, ove dall’altra parte, bisognava che mi recassi poiché colà dovevo seguire gli studi teologici. Giunto ad Atene mi presentai a Sua Beatitudine l’Arcivescovo, che mi serbò la migliore accoglienza paterna il di cui affetto, la tenerezza e l’interesse si mantengono inalterati fin oggi, accompagnandomi ad ogni passo della mia nuova vita ecclesiastica. Ciò potrei dire anche per l’allora Rev.mo Protosincello (Vicario Generale), oggi per grazia Divina Vescovo di Roge (Ρωγών), vero padre, il di cui interessamento per me superò fin dal principio ogni mia aspettativa. Inutile dire che in tale ambiente di affettuosa tenerezza, il Santo Sinodo non tardò a decidere per il mio definitivo ingresso nel seno della Chiesa Ortodossa.
Durante la Sacra Funzione della Cresima, per me commoventissima, in virtù della quale divenni ormai membro della vera vite, fui onorato col nome dell’Apostolo delle Genti, ed in seguito ammesso nel monastero della Madonna di Pentelis come monaco. Pochi mesi dopo venni ordinato Diacono per mezzo dell’imposizioni delle mani del Vescovo di Roge (Ρωγών).
Disprezzando le continue molestie da parte dei membri del fosco Ordine papista dei così detti «Greci uniti» poco numerosi in Grecia, la fantasia dei quali non si esaurisce mai quando si tratta di macchinare ogni specie di calunnie mi sento felice perché circondato dall’affetto, dalla simpatia, e dalla comprensione da parte della SS. Chiesa Greca e della venerabile Gerarchia, come pure da parte delle diverse Organizzazioni religiose ed in genere di tutti coloro che fin oggi mi onorano con la loro spirituale conoscenza.
Da tutti questi, miei padri e fratelli nella fede, e da quelle persone che a mezzo dei miei scritti benevolmente hanno appreso di me e di tutta la mia Odissea, chiedo il soccorso delle loro preghiere per ricevere la grazia del Cielo, onde mantenermi degno e costante verso il grande ed eccellente beneficio di Dio.
* * * * *
IL CONSENSO DELL’AUTORE
Salonicco, 1 febbraio 1955
Al molto Rev.
Archimandrita Benedictos Katsanevakis
NAPOLI (Italia)
Molto Reverendo,
Con grande gioia ho ricevuto tempo fa il Vostro libro: “I Sacramenti nella Chiesa Ortodossa”, per l’invio del quale desidero esprimerVi i miei più sentiti ringraziamenti. L’ho letto e studiato con molta attenzione e dopo di ciò sento profondamente, come ortodosso Occidentale, la riconoscenza per la Vostra attività illuminatrice e missionaria in Occidente, attività e opera, alle quali, io, personalmente, debbo tanto, come attuale Cristiano Ortodosso.
La seria obiettività che usate nei vostri studi, la profonda scientifica dignità e la fervente dedizione ai principi dell’inalterata eredità dell’Ortodossia, presentano la Vostra Opera Apostolica quale veramente unica.
Da molto tempo avevo grande desiderio di venire in contatto spirituale con Voi, affinché, da giovane ed inesperto operaio nella Vigna del Signore, approfittassi dalla Vostra ricca, spirituale e scientifica esperienza missionaria, ma ignoravo il Vostro preciso indirizzo in Napoli. Ultimamente l’ho conosciuto durante la mia permanenza al Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, ove con piacere ho constatato la profonda stima di cui lì gode la Vostra persona ed il Vostro Apostolato…
Ora, rispondendo alla Vostra ultima lettera, con filiale riconoscenza per l’onore concessomi Vi do pieno il mio consenso per la traduzione in lingua italiana del mio umile libretto circa la mia conversione all’Ortodossia. Ringrazio anticipatamente per questa Vostra fatica.
Devotissimo
Paul Fr. Ballester Convalier
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